Marco Morselli
Università di Modena e Reggio Emilia
Il Messia di Scholem
Secondo il Rebbe di
Berditchev, quando il Signore vide che l’anima d’Israele era malata, l’avvolse
nel lino bruciante dell’esilio. Fece poi scendere un sonno letargico per
aiutarla a sopportarne le sofferenze. Ma perché questo sonno non la
distrugga, di tanto in tanto la risveglia con una falsa speranza messianica.
E così Israele riesce a superare la notte, fino alla venuta del Messia.
1. Nel suo libro di
memorie Da Berlino a Gerusalemme Scholem ricorda l’emozione provata
nella primavera del 1913 (aveva allora 16 anni) quando lesse per la prima
volta una pagina del Talmud e ascoltò la spiegazione che Rashi
elabora dei primi versetti del Genesi. Fu, egli scrive, il primo
incontro con la sostanza ebraica della Tradizione: «Ciò che mi affascinò
allora, la forza di una tradizione plurimillenaria, era abbastanza forte da
determinare la mia vita, e da indurmi a passare da una dedizione nel modo
dello studio e dell’apprendimento a un’attività di ricerca e
riflessione nella quale sprofondarmi».[1]. Il contatto con la profondità della
Tradizione creò una trasformazione: «Ciò che allora credevo di poter
cogliere e afferrare, e su cui ho riempito alcuni quaderni della mia
giovinezza, si trasformò in quest’atto di prensione, e il concetto cui
tendevo divenne qualcosa che riluttava tanto più energicamente ai concetti,
man mano che passavano gli anni, in quanto liberava una vita misteriosa
della quale dovevo riconoscere l’impossibilità di essere tradotta in
concetti, e appariva tale da poter essere soltanto rappresentata sotto forma
di simboli».[2].
Per molti anni Scholem cercò
di avvicinarsi alle forme dalla vita ortodossa, e tuttavia alla fine non si
decise a farle proprie. Scelse invece di orientarsi verso il sionismo: «Se
esisteva una qualche prospettiva di un rinnovamento essenziale in cui l’ebraismo
avrebbe potuto realizzare pienamente il suo potenziale intrinseco, ciò
sarebbe potuto accadere solo dove l’ebreo avesse incontrato se stesso, il
suo popolo e le sue radici». Egli non era tanto interessato all’aspetto
politico del sionismo, quanto al suo aspetto spirituale, culturale, anche
sociale «Mi ero proposto di legare la mia esistenza alla costruzione di una
nuova esistenza ebraica in Eretz Israel. Sion era per me il simbolo
che collegava la nostra origine e il nostro scopo utopico, in un senso
piuttosto religioso che geografico».[3].
Poi, dapprima con esitazione,
intorno al 1915 incominciò a leggere scritti sulla Qabbalah. Provò
a cimentarsi con i testi originali, il che comportava non poche difficoltà,
perché vi erano allora in Germania talmudisti, ma non cabbalisti: «Ben
presto si destò il mio interesse per la Qabbalah, probabilmente
attivato dall’unione di motivi molto diversi. Forse – come avrebbero
detto i cabbalisti – nella “radice della mia anima” avevo un’affinità
con questa sfera; forse concorse il mio bisogno di comprendere il mistero
della storia ebraica – e l’esistenza degli ebrei attraverso i millenni
è un mistero, checché ne dicano le “spiegazioni” offerte con
dovizia».[4].
Così dovette cercare di
imparare da solo a leggere tali fonti. Si comprò un’edizione dello Zohar,
l’opera di Molitor, e alcuni testi del chassidismo. Tra il 1915 e il 1918
riempì molti quaderni di estratti, riassunti, traduzioni e riflessioni.
Nella primavera del 1919 prese la decisione di abbandonare gli studi
naturalistici per dedicarsi a uno studio scientifico della Qabbalah.
Nel 1923 compì la sua alyiah,
insieme ai duemila volumi della sua biblioteca, e andò ad abitare a
Gerusalemme. Dopo essersi sposato, andò ad abitare in via Abissinia, non
lontano dal quartiere ortodosso di Meah Shearim, a pochi minuti dalla
Biblioteca Nazionale: «La Gerusalemme nella quale arrivai mi era stata
destinata dal cielo, per così dire […] Dopo gli anni della Prima guerra
mondiale era impregnata di vecchi libri ebraici come una spugna di acqua.
Già allora venivano di continuo a Gerusalemme molti ebrei da tutte le parti
del mondo, per lo più con i loro libri, per pregare, studiare e morire».[5].
2. Le circa novecento
pagine che Scholem dedica a Shabbatai Tzewi, definito nel sottotitolo dell’opera
il Mesia mistico, intendono non solo offrire un contributo per far meglio
conoscere un movimento che ha scosso la Casa d’Israele fino alle sue
fondamenta, ma anche rivelare la natura profonda, pericolosa e distruttiva
dell’ideale prematuramente messianico.[6].
Il sabbatianesimo, ossia l’eresia
messianica scaturita da Shabbatai Tzewi (1626-1676), è stato il più vasto,
significativo, importante movimento messianico nella storia ebraica dopo la
distruzione del Secondo Tempio e la rivolta di Bar Kokhba. Si diffuse dalla
Terra d’Israele allo Yemen, alla Persia, all’Inghilterra, all’Olanda,
alla Polonia, alla Russia.
La terribile catastrofe che
aveva colpito l’ebraismo polacco nel 1648-49 non era, secondo Scholem,
sufficiente a spiegare l’esplosione sabbatiana. Sullo sfondo si stagliava
la Qabbalah lurianica, che a sua volta era strettamente connessa al
trauma della fine dell’ebraismo spagnolo.
La Qabbalah era l’eredità
spirituale comune a tutte le Comunità ebraiche e aveva fornito un’interpretazione
della storia e un insieme di idee e di pratiche rituali senza le quali il
sabbatianesimo sarebbe stato impossibile. Nel mondo chiuso nel quale era
confinata la vita ebraica, l’utopia messianica rappresentava la
possibilità di qualcosa di meraviglioso e di radicalmente differente.
Latente era la radicale contrapposizione tra autorità rabbinica e autorità
messianica. La stessa contemplazione cabbalistica si presentava come un’anticipazione
individuale di un messianismo escatologico. Il messianismo era entrato nel
cuore della Qabbalah.
A una generazione per la
quale le realtà dell’esilio e della precarietà dell’esistenza
diventavano sempre più opprimenti e crudeli, la Qabbalah, con la
profondità e la larghezza delle sue visioni, offriva risposte di
incomparabile valore, che illuminavano il senso dell’esilio. Già di per
sé la diffusione dello studio della Qabbalah diveniva un fattore che
affrettava l’avvento della Redenzione.
Viveva a Gaza un giovane di
intelligenza profonda e vivace, che aveva la vocazione di rivelare ai
penitenti che lo desiderassero quale fosse la radice della loro anima. Egli
poi indicava a ciascuno le istruzioni per il suo tiqqun, per la sua
guarigione e il suo ristabilimento nello stato originario. Fu dall’incontro
tra Shabbatai e Natan, nella primavera del 1665, che nacque il movimento
sabbatiano.
Shabbatai era nato a Smirne
nell’agosto del 1626, forse il 9 di Av, il che si accorderebbe con la
tradizione rabbinica secondo la quale la data della distruzione del Tempio
coincide con la data di nascita del Messia. Negli anni di formazione
alternava gli studi rabbinici a periodi di solitudine. Le sue letture
preferite erano i cinque volumi dello Zohar e i due volumi del Qana,
un libro sul significato mistico delle mitzwot, dei seicentotredici
comandamenti.
A Smirne acquistò la
reputazione di uomo ispirato e un gruppo di giovani si raccolse intorno a
lui. Si bagnavano ritualmente nelle acque del mare e si spingevano nei campi
per consacrarsi ai misteri della Torah. Viveva periodi di esaltazione
che si alternavano a periodi di tristezza, e Scholem non esita a
diagnosticare una nevrosi maniaco-depressiva.
Nel 1662 Shabbatai arriva in
Israele, vive per un anno a Yerushalayim, soggiorna forse a Tzfat, prega a
Hebron sulle tombe dei Patriarchi, poi scende in Egitto, dove sposa Sara.
Avuta notizia delle attività di Natan, si reca a Gaza alla ricerca del tiqqun
e della pace della sua anima. Quando Natan lo vede, si getta ai suoi piedi e
riconosce in lui il Messia.
Nei giorni seguenti Natan
ascoltava Shabbatai raccontargli la sua vita, la sua malattia, le sue
sofferenze, i suoi sogni, e Natan inseriva tutti i dettagli nello schema
cosmico e divino che aveva elaborato in seguito alle visioni che aveva
ricevuto. Si recarono insieme nei luoghi santi di Yerushalayim e di Hebron,
pregarono insieme sulle tombe dei santi rabbini e nel deserto.
Un grande risveglio
messianico ha inizio e si diffonde in Israele e nella Diaspora. I più
entusiasti dei suoi sostenitori si trovavano nelle Comunità di Istanbul,
Salonicco, Livorno, Amsterdam e Amburgo.
Shabbatai ritorna a Smirne,
circondato dal fervore di centinaia di seguaci, e inizia a compiere azioni
proibite. Viene proclamato Re d’Israele, Messia del D. di
Yaakov. Si festeggia il I anno del rinnovamento dalla Profezia e del Regno.
Tra visioni, profezie e perplessità rabbiniche viene fissata la data della
rivelazione della Redenzione per il 15 siwan 5426 (18 giugno 1666).
Le voci su Shabbatai giungono
fino alle autorità turche, le quali lo arrestano e lo conducono a Istanbul.
Viene poi trasferito a Gallipoli, vicino ai Dardanelli, in una sorta di
onorevole confino. Lettere e opuscoli sabbatiani continuano a tenere alta la
tensione messianica, condivisa anche dai millenaristi cristiani. Teshuvah
e manifestazioni di gioia si alternano, si diffondono devozioni notturne,
digiuni, bagni rituali. Molti mettono in vendita le loro proprietà per
essere pronti a raggiungere la Terra Santa. L’entusiasmo si diffonde tra
sefarditi e askenaziti, tra orientali e occidentali. Anche la prigionia di
Shabbatai riceve una spiegazione mistica: il Messia è prigioniero delle qelippot,
delle forze del male.
Nel settembre 1666 Shabbatai
viene condotto alla presenza del Sultano. Gli viene offerta la scelta tra la
conversione all’Islam e la morte. Shabbatai sceglie l’apostasia.
Lo scandalo, lo smarrimento,
la delusione furono enormi. Per più di un anno i credenti avevano vissuto l’esperienza
del rinnovamento messianico e le loro vite erano entrate in una nuova
dimensione spirituale. Dovevano ora riconoscere di essersi sbagliati, il
Redentore era in effetti un impostore?
Una nuova spiegazione dell’accaduto
venne formulata. Natan difese l’apostasia del Messia: egli stava
raccogliendo le scintille divine disperse nell’Islam. Erano scintille che
solo il Messia poteva redimere, e per far questo doveva immergersi nel Regno
delle qelippot. Apparentemente si sottometteva al loro dominio, ma in
realtà portava avanti la parte più delicata e importante della sua
missione riparatrice, del tiqqun. Il Messia prendeva su di sé la
vergogna di essere chiamato traditore del suo popolo, prima di rivelarsi in
tutta la sua gloria sulla scena della storia. Natan aveva così posto le
basi di una teologia sabbatiana che ebbe seguaci per un secolo e mezzo,
oltre la morte (l’occultamento, o l’ascensione) di Shabbatai (1676) e
dello stesso Natan (1780).
Credere in un Messia apostata
significava costruire la propria speranza su un’asse di paradossi e di
assurdità. Le diverse dottrine sabbatiane permisero ai credenti di
continuare a vivere nella tensione esistente tra la verità interiore e la
realtà esteriore: la storia non era ancora redenta, ma nella loro anima i
credenti vivevano già la realtà della Redenzione.
Scholem osserva che la crisi
causata dall’apostasia del Messia fu un momento tragico della storia d’Israele,
ma la tragedia portava con sé i germi di una nuova coscienza ebraica. Quel
sentimento di autentica liberazione che i «credenti» avevano provato,
cercò altre vie per esprimersi. Poiché era fallito il tentativo di
rivoluzionare la vita degli ebrei sul piano storico e politico, ci si
ripiegò all’interno, preparando quella disposizione intellettuale da cui
sarebbero scaturite l’Haskalah, l’emancipazione, la Riforma.
Nelle novecento pagine del
suo libro, neppure una volta Scholem definisce Shabbatai come falso Messia.
La sua chiave interpretativa è presente già nel sottotitolo: il Messia
mistico.
3. Se si esamina la
struttura de Le grandi correnti della mistica ebraica [7] si rimane colpiti dalla straordinaria importanza accordata al sabbatianesimo.
Il libro contiene un capitolo introduttivo sui caratteri fondamentali della
mistica ebraica, tre capitoli sulla Qabbalah medievale (la Merkavah,
il chassidismo renano, Abraham Abulafia), due capitoli sullo Zohar,
mentre tutta la parte moderna è incentrata sul sabbatianesimo, di cui la Qabbalah
luriana costituisce una premessa e il chassidismo polacco una sorta di
conseguenza. Dopo aver saltato a piè pari l’Ottocento, così Scuole
conclude l’opera: «Questa è la situazione nella quale oggi ci troviamo
di fronte alla mistica ebraica. Ma le storie non sono ancora morte, non sono
divenute ancora “storia”. La loro vita segreta può ancora risorgere,
oggi o domani, in me o in voi. Sotto quali aspetti questa invisibile
corrente sotterranea della mistica ebraica possa di nuovo rispuntare alla
superficie, non ci è dato prevedere. […] Parlare del cammino mistico che
– nella grande catastrofe che in questa generazione ha colpito il popolo
ebraico, così profondamente come mai prima nella sua lunga storia – può
ancora esserci tenuto in serbo dal destino, è compito del profeta, e non da
professori: anche se io personalmente credo che un tale cammino sia ancora
aperto davanti a noi».[8].
Ogni esperienza religiosa
successiva alla Rivelazione non può che essere mediata dalla Tradizione.
Scholem non ha ricevuto la Tradizione, né in Germania né in Israele. Ha
dunque scelto di trasformarsi in uno storico della Qabbalah. In
questo modo ha riscoperto una parte pressoché dimenticata della storia
ebraica, disprezzata e rinnegata come oscurantista dalla Wissenschaft des
Judentums. Ma la tensione presente nella sua opera è spia di un
interesse diverso da quello dello studioso.[9]
Avvicinandosi la fine dei tempi, la rivelazione dei segreti della Qabbalah
progredisce. E Scholem, a suo modo, è stato un rivelatore dei segreti della
Qabbalah.
Il suo interesse crescente
per il sabbatianesimo, negli anni Trenta, negli anni in cui andava
preparandosi la Shoah, e in cui lui viveva la sua alyiah, nascondono
e rivelano il suo timore che il sionismo potesse essere una sorta di
sabbatianesimo, ossia un’anticipazione messianica destinata al fallimento.
Egli temeva ad esempio che la rinascita della lingua ebraica comportasse in
qualche modo il rischio di una “magia pratica” incontrollata, dagli
effetti devastanti.
L’interesse per il
messianismo è costante. Questo tema, come è stato osservato, attraversa l’insieme
della sua opera. Scholem oscilla tra anarchismo religioso e sionismo
religioso. Löwy sostiene che l’anarchismo religioso sarebbe la fonte del
suo interesse per i movimenti messianici eretici del XVII e XVIII secolo (Shabbatai
Tzewi e Jakob Frank).[10]
Secondo Biale «è difficile evitare la conclusione che Scholem abbia
tentato di trovare un precursore per la sua teologia anarchica nell’antinomia
sabbatiana».[11]
Tuttavia, con il trascorrere
dei decenni, l’«anarchismo religioso» di Scholem si trasforma in
qualcosa di diverso. I due grandi avvenimenti della metà del XX secolo
hanno radicalmente trasformato la situazione: «Ci troviamo in una
situazione di incipit quale non si conosceva dalla distruzione del
Tempio».[12]
«Sono persuaso che il sionismo, dietro una facciata profana e secolare,
celi contenuti potenzialmente religiosi, e che questo potenziale sia molto
più forte di quei contenuti attuali che trovano espressione nel “sionismo
religioso” dei partiti politici».[13]
«Lo choc subito in epoca hitleriana
da ogni ebreo conscio della propria identità e da moltissimi non
altrettanto consci, ha colpito tutti i centri della vita ebraica. Con quale
profondità, oggi è difficile valutare, anche se è lecito supporre che le
onde lunghe e i riflessi di quell’avvenimento stiano dietro a tutto ciò
che ora accade, o perlomeno lo influenzino».[14]
Questi passi, contenuti in una conferenza del 1970, mostrano accenti ben
diversi da quelli dell’anarchismo o del nichilismo religiosi. L’ebraismo
viene definito «una realtà vivente che è andata trasformandosi nei vari
stadi della sua storia, ha operato scelte concrete e ha scartato parecchi
fenomeni, molto vivi in un certo periodo entro il mondo ebraico. Avendo
scartato questi fenomeni, l’ebraismo ha delegato a noi la questione se
quanto è stato scartato storicamente debba essere scartato dagli ebrei
odierni o dall’ebreo futuro che desideri identificarsi con il passato, il
presente e il futuro del suo popolo».[15]
Scholem, con timore e
tremore, sembra quasi farsi araldo di un nuovo livello religioso, di una
nuova ispirazione: «Con il ritorno del popolo ebraico alla sua storia e
alla sua terra, per quasi tutti l’ebraismo è diventato un organismo
aperto, vivente e non ben definito, un fenomeno che cambia e si trasforma».[16]
Egli consiglia di tenere aperti i cuori, le menti, le orecchie alle nuove
forze che cercano di esprimersi e ascoltare con attenzione «la Voce che
forse sta assumendo forma e espressione, quella Voce in cui – se si crede
in Dio come ci credo io – possiamo riconoscere la continuazione di ciò
che chiamiamo: la Voce proveniente dal Sinai».[17]