Una toccante avventura umana: Aimé
Pallière conosce e impara ad amare l'ebraismo
In un pomeriggio dell’autunno
1885, un ragazzo di 17 anni che stava godendosi gli ultimi giorni di
vacanza in attesa della ripresa delle lezioni passa davanti alla Sinagoga
di Lione e, avendo sentito dire che per gli ebrei era un giorno di gran
festa, decide di entrarvi.
La Sinagoga era piena di
gente: come avrebbe saputo in seguito, stava per iniziare la preghiera di Neylah,
con la quale si conclude lo Yom Kippur. Lo spettacolo offerto da
quella numerosa folla di uomini dalle spalle coperte con il talled
suscitò nel giovane Aimé un’impressione così forte che tutta la sua
vita ne sarebbe stata trasformata.
Quegli ebrei che fino a
quel momento aveva incontrato solo racchiusi nel lontano passato della
Bibbia e delle illustrazioni di Gustave Doré erano lì, in piedi davanti
a lui, chini sui loro libri di preghiere: «Si immagini un giovane
cristiano educato nel concetto che l’Antico Testamento non avrebbe altro
compito che di preparare la via al Nuovo, il quale gli è definitivamente
succeduto, e che, dopo l’avvento del cristianesimo, il compito d’Israele
sarebbe finito. L’ebreo non esisterebbe più che come testimone cieco e
impotente della verità profetica realizzata contro di lui. […] Ora,
ecco che ad un tratto Israele mi appariva vivente di vita propria, nella
quale nulla rivelava l’annunciato decadimento. Questo ebraismo della
Diaspora mi si mostrava come una collettività forte e organizzata, che
dopo millenovecento anni, a dispetto delle volontà concorrenti ad
annientarlo, ha continuato ad esistere».
Poggiato su un banco c’era
un Siddur. Il ragazzo lo prende in mano, lo apre e rimane sorpreso
e incuriosito dai caratteri sconosciuti, simili a strane note musicali.
Il giorno dopo Aimé decide
di procurarsi una grammatica ebraica e inizia a studiare la lingua. Il suo
acquisto successivo è l’Historia de’ riti hebraici di Leone
Modena, trovato a due franchi su una bancarella lungo le rive del Rodano.
Dopo un anno di studio,
ritorna in Sinagoga per il successivo Kippur, questa volta con una
maggior conoscenza dei riti che vi si sarebbero svolti. Il contatto
diretto con il testo ebraico delle Scritture, la meditazione sulle origini
ebraiche del cristianesimo non facevano che accrescere l’attrazione che
l’ebraismo esercitava su di lui.
Dopo un periodo trascorso
nell’Esercito della Salvezza e un ritiro in una Certosa, ritiene di
essere pronto a riprendere la partecipazione alla liturgia cattolica. Ma
proprio durante una comunione lungamente preparata ha luogo la crisi
decisiva. Si rende conto che nonostante i suoi sforzi e i tentativi di
intensificare il suo fervore egli non crede più ai principali dogmi
cattolici: «Invano mi attaccavo a quelle ultime credenze come un naufrago
ai rottami della sua imbarcazione; invano, spaventato dal vuoto
sconosciuto in mezzo al quale mi accingevo ad errare, ricacciavo me stesso
per l’ultima volta verso la mia infanzia, verso la mia famiglia, il mio
paese, verso tutto quello che mi era caro e sacro». Eppure, proprio in
questo momento di angoscia si fa strada in lui una consolante certezza:
«Periscano tutti i dogmi e tutti i miti! Dio ti resta e con Lui tu hai
tutto. Tu sei la sua creatura e il suo figliolo, e nulla al mondo ti
potrà mai strappare dalle sue mani!».
Aimé sa che il sentimento
della paternità di Dio, con le luci e le forze spirituali che Egli
comunica all’anima umana è presente in ogni pagina del Vangelo, e non
vi è in questo soluzione di continuità con la Bibbia ebraica: «Io
compresi che la fede di Gesù dovette essere simile alla mia, anche se
incomparabilmente più profonda e luminosa».
Deciso a tradurre in forme
precise la sua vita religiosa, Pallière pensa di prendere contatto con un
rabbino, e gli viene consigliato di rivolgersi a Rav Elia Benamozegh,
rabbino-predicatore della Comunità di Livorno.
Nel 1895 si reca dunque a
Livorno per la festa di Rosh haShanah, ma Benamozegh è malato e
non può riceverlo. Ha però inizio tra loro una corrispondenza nel corso
della quale il rabbino livornese gli propone di diventare un noachide:
«Per essere nostro fratello, come voi desiderate, non avete affatto
bisogno di abbracciare l’ebraismo nella maniera che credete, intendo
dire sottomettendovi al giogo della nostra Legge. Noi ebrei siamo
depositari della religione destinata all’intero genere umano, la sola
religione cui i gentili siano assoggettati, e per cui essi sono salvi e
veramente nella grazia di Dio. La religione dell’umanità non è altro
che il noachismo».
Del noachismo Pallière
sentiva parlare per la prima volta, e la proposta fu ben lungi dal
sembrargli chiara e convincente. Anche il successivo incontro a Livorno
nel 1898 (l’unico avvenuto tra i due) non dissipò le sue perplessità.
Curiosamente, la loro corrispondenza ebbe termine poco dopo l’incontro.
Nel 1900 Benamozegh lascia questo mondo.
Nell’estate del 1901
Pallière si reca in pellegrinaggio sulla sua tomba e «è a partire da
quel momento che ho cominciato a comprendere Elia Benamozegh e la dottrina
che egli mi aveva esposto. E’ a cominciare da quell’ora che io mi sono
veramente sentito suo discepolo»
Pallière inizia allora un’intensa
collaborazione alla rivista «Univers Israélite». Con lo pseudonimo
Loetmol (in ebraico: non ieri, una sorta di traduzione del suo nome per
assonanza con pas hier) pubblica una serie di articoli intitolati Elia
Benamozegh e la soluzione della crisi cristiana, apparsi proprio negli
anni della crisi modernista. Insieme a Padre Hyacinthe Loyson organizza
incontri con salutisti, battisti, metodisti, avventisti, alla ricerca di
un ecumenismo delle radici, finché la Pascendi di Pio X non pone
fine nel 1907 a queste attività.
Nel frattempo Pallière
lavora all’edizione – e riscrittura – del manoscritto inedito di
Benamozegh: Israël et l’humanité verrà pubblicato a Parigi nel
1914. Gli anni trascorsi nella revisione del manoscritto sono anche quelli
in cui viene chiarendosi quale sarà la sua vocazione religiosa: non si
convertirà all’ebraismo e in fondo non sarà neppure l’iniziatore del
moderno noachismo. Avrebbe invece svolto una funzione inversa rispetto a
quella di Paolo: Paolo, ebreo, era divenuto apostolo dei gentili; lui,
gentile, avrebbe predicato agli ebrei la fedeltà alla Torah e alla Terra
d’Israele, considerando il sionismo come compimento delle profezie.
Nel 1933 compie un
pellegrinaggio a Lourdes e nel 1942 ritorna alla pratica dei sacramenti
cattolici. Vive gli anni della Shoah nascosto e cercando di aiutare
come può i suoi amici perseguitati. Gioisce della nascita dello Stato d’Israele
e partecipa a una veglia di preghiera organizzata in una Sinagoga di
Nizza.
Il 24 dicembre1949, all’uscita
di Shabbat, chiude i suoi giorni, nei pressi dell’Abbazia di
Saint Michel de Frigolet. I monaci lo consideravano «un chrétien qui vit
à la juive». Nel suo Testamento aveva scritto: «Muoio cattolico, senza
alcun pregiudizio per la fede ebraica che è la mia». Un Kaddish
viene recitato per lui nella Sinagoga di rue Copernic a Parigi.
Coloro che lo avevano
considerato ormai un noachide si sentiranno traditi. Vero è che Pallière
è stato estremamente riservato con i suoi amici ebrei sul suo ritorno al
cattolicesimo negli ultimi anni.
Nell’epistolario,
Benamozegh scrive a Pallière che il noachismo è la religione dell’umanità
convertita al culto del vero D., di cui i Profeti hanno annunciato il
trionfo nei tempi messianici. Si può continuare a chiamarlo
cristianesimo, egli prosegue, purché venga liberato della dottrina della
Trinità e dell’Incarnazione.
Alle orecchie dell’interlocutore
cristiano questo può sembrare un giocare con le parole: cosa rimane mai
del cristianesimo una volta che esso sia stato privato dei suoi dogmi
costitutivi?
Ora, in effetti su questo
punto centrale Benamozegh nell’epistolario è troppo sbrigativo, ma
occorre ricordare che a queste tematiche aveva dedicato un’opera di centinaia di pagine, che
potrà però essere pubblicata solo un secolo dopo la sua morte. In quest’opera
è possibile trovare una spiegazione cabbalistica sia della Trinità che
dell’Incarnazione, dottrine che pertanto non dovrebbero essere “eliminate”,
ma reinterpretate e ricondotte alla verità della loro origine.
Poco prima, Benamozegh
aveva fatto risalire a Shimon/Pietro l’errore di voler imporre l’osservanza
delle 613 mitzwot ai goyim e a Shaul/Paolo l’errore di
volerne esentare gli stessi ebrei. È significativo che l’oscillazione
tra i due opposti errori sia attribuita ai discepoli, e non al loro
maestro. Anche qui dunque, nell’altro punto centrale «in cui si è
operata la lacerazione tra l’ebraismo e il cristianesimo», non è
difficile scorgere la verità originaria.
Raniero Fontana ha
osservato che il movimento noachide contemporaneo sta cercando un proprio
spazio tra le religioni, e comunque fuori del cristianesimo,
considerato per lo più una idolatria da abbandonare. Pallière «lo
cercò invece all’interno della sua stessa religione. Ma egli poté
riuscirvi facendone però implodere per così dire dal di dentro i
contenuti. Come? Optando per la trasparenza e non per la profondità».
Fontana propone quindi la trasparenza come chiave ermeneutica per
comprendere l’esperienza spirituale di Pallière. Credenze e riti
«erano ormai osservati attraverso il velo della trasparenza, in modo che,
al di là di tutte le varietà di credenze e la molteplicità delle forme
di culto e di adorazione, apparisse un fondo di verità conforme alla più
pura Tradizione d’Israele» (p. 180).
Conclude affermando che il
pensiero del discepolo (Pallière) è sotto il segno della trasparenza,
mentre il pensiero del maestro (Benamozegh) è sotto il segno della
profondità. E su questo siamo d’accordo, salvo aggiungere che è
proprio la profondità di Benamozegh a permettere la trasparenza di
Pallière.
La “conversione” di
Pallière non è consistita nell’abbandono di una religione per
abbracciarne un’altra, ma in un radicale cambiamento del suo essere
cristiano nei confronti di Israele.
Anche se nel suo percorso
non mancano incertezze, ambiguità e zone d’ombra, egli è stato fedele
per tutta la sua vita alla rivelazione del 1885.
È stato detto sia di
Benamozegh che di Pallière che erano in anticipo di un secolo o due sui
loro tempi. Pallière non ha potuto compiere da solo la grande
trasformazione, ma è stato tra coloro che la ha anticipata con più
fervore e intensità.
Come ha osservato Rabi (alias
Wladimir Rabinovitch): «Da certi segni, credo presentire le grandi
possibilità del proselitismo ebraico. La venuta di Pallière tra noi
corrisponde al rovesciamento del corso dell’evoluzione».
Forse siamo noi a iniziare
a capire che tale rovesciamento non corrisponde al fallimento del
cristianesimo, ma al suo tiqqun, al suo ritorno alle origini.
Marco Morselli
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Nota bibliografica
Le Sanctuaire inconnu
venne pubblicato a Parigi nel 1926 e, con delle modifiche, nel 1950. È stato tradotto in tedesco (Berlin 1927), in inglese (New York 1928 e
1985), in ebraico (Jerusalem 1945) e in italiano (Roma 1953).
Oltre al già citato volume
di R. Fontana, a Pallière è dedicato il recente libro di C. Poujol, Aimé
Pallière (1868-1949). Un chrétien dans le judaïsme, Desclée De
Brouwer, Paris 2003. Il libro, rielaborazione di una tesi di dottorato in
Storia moderna, è ricco di informazioni, ma è limitato da un’insufficiente
conoscenza e da una sorprendente incomprensione del pensiero di Rav Elia
Benamozegh.