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Itinerari Ebraici - Giornata della Cultura Ebraica 2006
Modena e Reggio Emilia Città capofila
degli Itinerari Ebraici
Introduzione storica
I primi insediamenti ebraici in
Italia coincisero con l'arrivo a Roma di altri culti provenienti dall'Oriente,
come quello di Mitra. Non si può escludere dunque che il primo contatto del castrum
Mutinensis con i mercanti ebrei che seguivano i legionari e gli eserciti
romani con le salmerie, coincida col periodo in cui vennero realizzate le
pietre scolpite attribuite al culto di Mitra ritrovate recentemente in
territorio modenese.
Le cronache modenesi dal 1000
al 1300 sono scarse di notizie, in particolare sugli ebrei: probabilmente ve
n'erano e vi svolgevano le loro attività, ma non facevano
"notizia", erano parte del "panorama", cioè era una
presenza che la società dell'epoca, ormai cristianizzata, non sentiva come
estranea al corpo sociale, o per lo meno era sufficientemente ben tollerata
(non così nell'Europa allora attraversata dalle orde dei Crociati ed
aggregati).
Non si può escludere, quindi,
che vi fossero già ebrei radicati da qualche generazione nel nostro
territorio, poiché le vicende storiche o familiari hanno reso gli ebrei degli
eterni immigranti, dall'oriente o dal nord, lungo itinerari alle volte
estremamente perigliosi fin dalle epoche più remote. Troviamo soltanto una
nota del Muratori che accenna ad uno stanziamento, nel 1205, di un certo Vidal
Giudeo, per una decima a Saliceto, concessa dal Vescovo Imbone, contro
il versamento di una decima, appunto. Era l'epoca in cui i Vescovi avevano il
possesso dei territori della loro diocesi ed è appurato che famiglie
ebraiche, a quei tempi, si dedicassero alla coltivazione dei campi, in zone
fertili e ricche d'acqua come quelle del modenese.
Nel Sinodo tenutosi a Ravenna
nel 1311 i Vescovi imposero agli ebrei l'obbligo del segno giallo di
riconoscimento, confermando il precedente Concilio del 1215. Dalle restrizioni
e persecuzioni relative, si può dedurre che all'epoca (anche se Modena non
viene citata) nella nostra regione vi fossero numerosi ed attivi nuclei
ebraici, fra cui quegli ebrei sfuggiti alle stragi compiute nei territori
d'Oltralpe (per esempio a Magonza venne sterminata tutta la Comunità, salvo
coloro che si rifugiarono presso il Vescovo).
Soltanto un'indagine più
minuziosa degli atti notarili dell'epoca potrebbe fornire qualche certezza;
difatti gli insediamenti erano legati solitamente alla concessione di una condotta,
cioè una patente o autorizzazione ad personam e per i soci, a gestire
un banco feneratizio. La condotta legittimava il soggiorno per un lasso di
tempo determinato, quasi sempre rinnovato, che però consentiva di operare
anche in settori diversi dal prestito o dal cambio della moneta, fra cui i
commerci e gli scambi con altri stati.
Ed è da rilevare che questi
ebrei in cerca di un po' di pace, con la necessità economica di avviare
un'attività redditizia, danno una ben scarsa importanza ai confini politici
in un'Italia ancora frammentata in innumerevoli staterelli, ognuno con la
propria moneta, le proprie leggi, il proprio governo, che a sua volta è
spesso condizionato da altre potenze.
Difatti un banchiere spesso
gestiva affari e condotte, o banchi, anche in società presso stati diversi,
destreggiandosi con grande abilità nei cambi e nel calcolo dei valori e di
merci diverse, traendo vantaggi appunto come cambiavalute, capace di tenersi
sempre aggiornato sulle frequenti mutevoli situazioni politiche, e pertanto
economiche e monetarie, dei paesi corrispondenti.
Gli Statuti di Modena del 1327,
in cui vengono fissate le norme Corporative Comunali, sono un documento sicuro
della presenza di ebrei, in quanto negli elenchi figurano nomi ebraici nella
Corporazione dei prestatori e banchieri e in altre categorie, senza peraltro
siano previste norme particolari per la loro attività, né vi compaia la
consueta etichetta di Hebreo o Judeus, il che conferma il clima
di discreta liberalità e di tolleranza all'epoca dei Comuni liberi.
Dopo lunghe controverse vicende
politiche, soltanto nel 1336 Modena viene a far parte definitivamente del
dominio Estense e, come a Ferrara, inizia un incremento notevole
dell'immigrazione ebraica: nel 1303 giunse un gruppo da Perugia e, a partire
dal 1476, l'ambasciatore estense a Genova notificò ad Ercole I che in quella
città arrivavano per mare ebrei dalla Spagna, già in fuga per le feroci
persecuzioni che culminarono con l'espulsione del 1492 e proseguirono poi con
la cacciata anche dal Portogallo.
In contemporanea gli ebrei
venivano perseguitati in tutti i territori sottoposti al dominio spagnolo, fra
cui le numerosissime ed operosissime comunità dell'Italia meridionale,
compresa la Sicilia e la Sardegna.
Gli Estensi non si fecero
sfuggire un'opportunità economica, anche per lo spirito rinascimentale che
aleggiava nelle loro corti. Ai fuggiaschi vennero concessi dei salvacondotti e
la facoltà di risiedere in tutte le località del dominio estense: difatti
fin dal 1451 la Chiesa aveva accordato a Borso d'Este il "favore" di
accogliere ebrei nei propri territori.
Se i salvacondotti prevedevano
alcune riserve e condizioni, per contro consentirono ad intere famiglie Sefardite,
cioè provenienti da Sefarad (nome in ebraico di Spagna) di salvarsi e
di portare incremento notevole all'economia dello stato, alla cultura, alle
conoscenze in vari campi, e soprattutto portarono con sè il patrimonio di
relazioni commerciali e personali per i rapporti con l'oriente, tra cui la
conoscenza della lingua araba ed ebraica.
Quanto agli ebrei Askenaziti,
provenienti dalla Germania e dalla Polonia e Prussia, al di là della
normativa che regolava la concessione di una condotta, memori delle terribili
esperienze storiche subìte, prima di insediarsi in una società non nota, di
cui temono sostanzialmente o potenzialmente l'ostilità, negli accordi
contenuti nei loro salvacondotti pongono le condizioni tendenti ad assicurarsi
anzitutto l'incolumità fisica e la protezione degli averi, nonché chiedono
conferma di poter osservare il culto e le pratiche ebraiche.
E'interessante notare che a
volte questi contratti prevedono esplicitamente che le balie ed il personale
cristiano al servizio degli ebrei non venga molestato; che, nell'eventualità
in cui qualche ebreo venga accusato di alcunché, non si faccia ricorso alle
torture per estorcere le confessioni e che non si possa condannarlo se non
dopo aver ricevuto la testimonianza di almeno quattro cittadini di comprovata
lealtà e reputazione. Inoltre viene introdotta una clausola mai richiesta
dagli altri profughi e che, invece, è costantemente e insistentemente riportata
dagli askenaziti, che si riferisce alla protezione e alla difesa dal pericolo
delle conversioni forzate e abusivamente imposte ai minori. Era, questa, una
delle più dolorose piaghe persecutorie, appoggiate dalla Chiesa (e purtroppo
ancora di attualità specie in Francia persino negli anni successivi alla Shoah). Non bisogna dimenticare che a Modena ancora alla metà dell'Ottocento
si sono verificati casi simili, ma meno clamorosi, al "caso Mortara".
Sotto l'egida illuminata degli Estensi, gli anni del Rinascimento furono
decisamente favorevoli per la Nazione Ebraica; spesso il duca di turno
dovette intervenire, anche con grida, per reprimere soprusi e malversazioni da
parte del potere comunale e delle Corporazioni che osteggiavano la concorrenza
ebraica.
In seguito il clima andò
deteriorandosi; i giudei erano presi di mira: aleggiava lo spirito della
Controriforma che combatteva ogni forma di "deviazione" dal
cattolicesimo, vera o presunta che fosse. Già da decine d'anni
imperversavano, anche a Modena, le prediche dei frati itineranti degli ordini
minori (zoccolanti, francescani ed i loro antagonisti domenicani) il cui scopo
era quello di demonizzare e di convertire a tutti i costi i perfidi zudé (nel
significato etimologico latino per fidus, cioè infedele, parola
che poi ha assunto il valore attuale). Nel 1538 il duca Ercole II, a seguito
delle suppliche ebraiche, dovette intervenire perché le giornaliere prediche
"coatte" in Duomo venissero diradate, limitate le presenze ed
abbreviate, per "poter aver il tempo di lavorare"! Il successivo
duca, Alfonso II, uomo bigotto - che poi si fece frate cappuccino -, ordinò,
con grida del 1570, che ogni ebreo "da dodici anni in su" portasse
il "segno" consistente in una "cordella di colore arancio"
a destra sull'abito, in modo ben visibile. Ma nonostante le pene promesse per
le trasgressioni "di scudi cento e di tratti tre di corda", ben
presto l'imposizione fu quasi del tutto trascurata.
Ma la situazione si aggravò
quando nel 1598 Cesare d'Este, uomo debole ed inesperto di governo, fu
costretto ad abbandonare Ferrara e trasferì a Modena la capitale del ducato;
contemporaneamente qui venne trasferita anche la sede della Santa Inquisizione
e per gli ebrei (e non solo per loro!) la situazione peggiorò sensibilmente,
fino all'istituzione del ghetto nel 1638, rivendicata come atto dovuto da
parte del duca Francesco I.
Lasciamo per un po' le vicende
storiche che coinvolgono la città, e naturalmente pure gli ebrei, per porci
un sostanziale interrogativo: di che cosa avevano bisogno questi ebrei itineranti
una volta stanziatisi in quel di Modena?
Come chiunque, necessitavano
almeno di tre cose fondamentali: una abitazione, un luogo di culto e un
cimitero. Da non trascurare, naturalmente, erano l'autorizzazione a procurarsi
il cibo secondo le norme ebraiche kasher, il diritto di professare il
proprio culto ed il riposo sabbatico, nonché il permesso di svolgere una
attività.
L'abitazione
Dunque, anzitutto una casa. Nel periodo
antecedente all'istituzione del ghetto non c'erano particolari restrizioni a
dove risiedere (se si escludono le proteste cristiane nel caso che
l'abitazione fosse ritenuta un po' troppo vicina o adiacente ad una chiesa, o
che vi fosse sul muro o sotto al portico una immagine devozionale affrescata).
Chi aveva possibilità, comprava, con regolari atti notarili, case,
laboratori, magazzini nelle contrade anche più prestigiose come nei pressi di
Rua Muro, nel quartiere S. Giacomo, Via Carteria (ovvero Cartaria) o ancor
meglio, sulla strada del Canale Naviglio.
Alle volte l'ubicazione era condizionata
dall'attività che veniva svolta: per esempio per i filatoi, i mulini, le
concerie necessitava acqua abbondante e corrente ed i laboratori con relative
abitazioni, venivano allestiti nei pressi dei numerosissimi canali della città.
Ai curiosi o interessati propongo un, sia pur
breve, itinerario per ritrovare il sapore antico dei luoghi ebraici e
della città stessa, ancora oggi individuabili.
Come dei turisti, ci basiamo su una mappa del
quartiere di Canalchiaro del 1622, disegnata da Sappori e Gadaldini (il quale
tra l'altro possedeva una casa in zona). Per tentare di individuare, almeno
approssimativamente, gli stabili che ci interessano, ci baseremo anche sulla
numerazione delle case e la suddivisione per quartieri eseguita dal 1786,
riconoscibile dalle piastrelle quadrate in cotto o in marmo, ancora in parte
esistenti, collocate al lato sinistro della porta di ingresso degli stabili.
Le piastrelle recano la lettera dell'alfabeto
assegnata al quartiere ed il numero progressivo, che non tiene conto del lato
destro o sinistro della via. Tuttavia c'è da tener presente che le famiglie
di cui cercheremo di individuare il domicilio, vi si insediarono in epoca
assai precedente alla numerazione stessa.
Aiutandoci con la mappa, partendo da
Canalchiaro, troveremo a sinistra una strada denominata Via Cervetta: sul lato
dell'arco del portico c'è un cotto rettangolare che reca la data in lettere
romane di MDCXXII. Questa via si chiamava Via de' Sanguineti dal nome della
potente famiglia di banchieri ebrei che possedeva tutto l'isolato. (Occorre
chiarire che per banchiere allora si intendeva tenere un banco,
un tavolo in piazza, per fare il cambiavalute o il prestito su pegno o su
contratto). Percorrendo questa via, a destra troviamo le targhe G 634 e G 635
(ora n° 23): dove attualmente si trova l'Albergo ed il Ristorante era una
grande Cantina di Acqua vita, ovvero la grappa, che vi si produceva
ed era destinata all'esportazione per l'oriente. Proseguendo, alla confluenza
con Via Selmi, è segnalata una Sinagoga proprio nel corpo del caseggiato che
è più elevato: probabilmente non si trattava di un semplice oratorio, come
era abbastanza diffuso nelle famiglie più abbienti, ma di una vera sinagoga,
accessibile ai correligionari. Ora percorriamo la Via Trivellari (o Trivelati),
già Via dello Spavento, e sulla destra troviamo varie targhe della
numerazione settecentesca: G 625, G 624, 623, 620 che indicano i vari ingressi
dello stabile. Si parla di oltre 40 stanze, con magazzini e stalla.
Interessante notare che da Via Trivellari
proseguendo per vicolo Forni, si raggiungeva la Contrada della Beccaria Minore
(oggi compresa nel Mercato coperto), importante perché in quella macelleria
era concesso agli ebrei di macellare, secondo il rito ebraico, ovini, caprini
e volatili.
Da questo quartiere la famiglia Sanguineti si
trasferì in Contrada de' Servi, vicino al Convento gesuita, in un palazzo
prestigioso comprendente ben 4 cortili interni. Ma quando i frati vollero
erigervi il loro collegio annesso alla Chiesa di S. Bartolomeo, i Sanguinetti
furono costretti a sloggiare e si trasferirono, pare, ad un passo dalla Piazza
Grande, cioè in Contrada Castellaro, vicino alla Contrada de' Scudari, centro
politico della città (già denominata Contrada del Pallone).
Ora, da Canalchiaro, restando in zona, ci
spostiamo in quartiere S. Giacomo contrassegnato dalla lettera "S",
e percorriamo il Calle di Luca.
Sulla destra, all'angolo con Rua del Muro, c'è
un grande palazzo con balcone, che portava probabilmente i numeri
1644/1645/1646 (avvalorato dal fatto che poco più avanti troviamo la targa
con S 1652). Qui c'era un filatoio (o filatoglio) per la lavorazione dei
follicelli o bozzoli della seta, gestito da Emanuele Sacerdoti. Più avanti al
S 1653 (ora n° 12) c'era una conceria di pelli di animali da pelliccia (altri
due filatoi ad acqua erano gestiti da Abram e Aron Sanguinetti, come risulta
nel 1755 dall'elenco della Corporazione della seta) e un mulino di un
cristiano (forse di lontane origini ebraiche) di nome Lamberti.
Tutte queste attività sfruttavano le acque del
Canale di Baggiovara, che era navigabile e trasportava le merci fin sotto le
mura della città che chiudevano il Calle di Luca, e, oltrepassandole, faceva
azionare le macine del mulino e le attrezzature per le altre industrie,
sfociando poi nel non lontano Canale della Cerca. Il Calle, perciò, era un
vicolo chiuso e denominato in dialetto cul d' Locca.
Ora ci spostiamo nei quartieri 'O' di Santa
Maria delle Asse (chiesina tuttora esistente su Canalgrande) e 'P' di San
Pietro. In questa zona abitavano molte famiglie ebraiche, come un Simone
Rovighi che possedeva una casa probabilmente d'angolo fra Rua Pioppa e Via
Gallucci al O 1309 ed un'altra nel quartiere P al 1428. Un ebreo di nome
Spagnoli possedeva una grande casa con ingresso su Rua Pioppa e Via del
Mangano (ora Corso Adriano) rispettivamente al 1202 e 1222. Come punto di
riferimento troviamo ancora, sulla sinistra venendo dalla via Emilia, le
antiche piastrelle: il O 1204 su Rua Pioppa e il P 1226 su Corso Adriano.
Ancora una breve passeggiata e andiamo nel
quartiere 'B' di San Domenico sulla strada del Canale Naviglio (oggi
Corso Vittorio Emanuele) dove risiedeva Moisè Rovighi, che doveva essere
notevolmente benestante (forse un banchiere) se possedeva un palazzo con 5
ingressi, dal B 143 al B 147, ora garage e locali dell'Hotel Europa. Il
palazzetto è facilmente individuabile perchè, pur rimodernato, conserva la
struttura originale.
Quanto al Rovighi, è assai probabile che fosse
un discendente del "Abram Rovigo Ebreo banchiere in Modona", in
favore del quale nel 1638 venne emessa una grida per essere stato fortemente
danneggiato.
Volgendo le spalle alla chiesa di S. Domenico,
percorriamo quel tratto di Cesare Battisti dalla parte del portico, che fa
angolo con Via del Taglio, si trovava lo storico palazzo Sacerdoti, la
famiglia dei banchieri del duca, che aveva il privilegio di vivere fuori dal
ghetto, di viaggiare senza il segno e con la scorta armata. Con gli
anni, la famiglia Sacerdoti inglobò alcune casette sulla Via del Taglio,
formando un fronte unico fino all'angolo con Via Fonte d'Abisso.
Il già citato Emanuele Sacerdoti, in Vicolo
del Giardino (tuttora esistente alla destra dell'ingresso del Giardino
Pubblico da Corso Vittorio), al B 148 aveva un altro filatoio per la seta, per
la lavorazione della quale usava l'abbondante acqua corrente del Canale
Naviglio che, all'epoca, scorreva en plein air, passando sotto al
Palazzo Ducale; sulla darsena era ormeggiato il bucintoro ducale, con
il quale i Signori potevano raggiungere Bomporto ed infine Venezia.
Ho portato naturalmente soltanto alcuni esempi,
ma attraverso questo percorso è facile notare che i proprietari dovevano
essere piuttosto abbienti.
La maggior parte degli ebrei, però era in
condizioni economiche ben diverse, talora veramente miserabili. Dimoravano
nelle viuzze buie e maleodoranti della zona centrale e medievale della città,
che, in buona parte, è stata sventrata, tra cui le vie e gli isolati che
occupavano l'attuale Piazza Mazzini, nella zona che dal 1638 fu adibita a
ghetto.
Le Sinagoghe
Abbiamo detto che il secondo
elemento indispensabile per gli ebrei che arrivavano o che risiedevano era di
poter disporre di un luogo per il culto, o Sinagoga, fulcro della vita
religiosa, ma anche, come dice il nome stesso derivato dal greco, il luogo di
incontro, di socializzazione, nonché di studio, cioè la Scòla,
come era chiamata con termine gergale dai nostri vecchi fino alla prima metà
del Novecento.
Era quindi di fondamentale
importanza ottenere anticipatamente l'autorizzazione ad aprire un oratorio
privato presso la propria abitazione o disporre di una sala ove potessero
convenire altri correligionari per raggiungere il numero necessario (10
uomini) che consente secondo le norme la lettura della Bibbia sugli antichi
rotoli di pergamena, anziché sui libri a stampa.
Dove fosse situato a Modena il
più antico oratorio non è stato ancora accertato e risulta di difficile
individuazione perchè potrebbe essere stato collocato all'interno di un
ambiente privato.
Tuttavia nel Museo di Cluny, a
Parigi, esiste un manufatto di incontrovertibile provenienza modenese: si
tratta del più bello, antico e prezioso armadio (Aron) o Arca
Santa adibito a custodire i rotoli delle pergamene, arredo indispensabile
in qualsiasi oratorio o Sinagoga.
Le numerose iscrizioni,
scolpite ad intaglio che adornano i tre lati dell'Aron, ne attestano
l'autenticità, l'anno di fabbricazione, il 1472, e il nome del donatore:
"Elhanan Raphael, figlio dell'onorevole R. Daniel" ed a questi
dedicato (la R sta per Rabbino). Dove fosse collocato e come questo antico
arredo sia giunto nelle mani di un membro della famiglia dei banchieri
Rothschild, che poi lo donò al museo parigino, resta un mistero: è noto però
che un ramo di questa famiglia intorno alla fine del Settecento aveva preso
dimora a Bologna.
Lo stile prezioso ed elaborato,
il corpo a torre diviso in due parti sovrapposte (che facilitava il
trasporto per eventuali fughe o trasferimenti), l'uso di dorature e dei
riquadri in rilievo, con un cappello a dentellature, fanno di questo mobile un
documento unico e raffinato dell'arte della boiserie medievale
dell'Europa occidentale. Un riscontro ed una conferma la troviamo in una
miniatura eseguita a Mantova che raffigura un gruppo di ebrei davanti ad una
Arca Santa del tutto simile a quella di Cluny.
Nella sua cronaca, lo Spinelli
riferisce che nel 1458 alcuni ebrei modenesi furono condannati a pene
gravissime, con processo del Santo Uffizio, per aver "osato"
istituire una Sinagoga senza il consenso ecclesiastico. A quel tempo la Chiesa
imponeva che in ogni località non potesse esservi più di una sinagoga e che
non dovesse essere individuabile dall'esterno, tanto che spesso veniva eretta
all'ultimo piano dello stabile o con l'ingresso da un cortile interno.
Per salvare gli ebrei dalla
dura condanna inflitta, fu necessario il ricorso al Duca Borso ed al Papa
Calisto III, che ottennero una transazione, mercé (neanche a dirlo!)
l'esborso di una ingente somma.
Confrontando le date, si
potrebbe azzardare un'ipotesi, che cioè l'accusato sia stato Angelo da Fermo
(poi de Mutina) che godeva di buoni rapporti con Borso d'Este, ipotesi che
potrebbe essere avvalorata dal fatto che la sua Sinagoga situata nella
Cinquantina di San Salvatore, dove teneva il banco, nel l463 viene citata dal
notaio, in presenza del quale fu stilato il testamento dello zio e socio di
Angelo. L'atto notarile autenticava in tal modo l'esistenza di una sinagoga,
indicata come "Cappella in S. Salvatore" (la Via S. Salvatore è
parallela e successiva alla già citata Via Trivellari, dove risiedeva la
famiglia Sanguineti).
Angelo era il discendente della
quarta generazione di un tale Dataro da Fermo che nel 1395 si era trasferito a
Modena, con il banco in S. Salvatore e, probabilmente, vi istituì il suo
oratorio privato che potrebbe essere, se non il più antico, certo uno dei
primi.
Angelo morì nel 1484,
lasciando un patrimonio davvero ingente e ben 136 crediti, fra cui uno
notevole verso il Comune di Modena.
Nonostante i severi divieti
ecclesiastici, un altro oratorio non meglio precisato risulta fosse presso la
Chiesa dei Servi, "in vicinanza delle Case Forni". Potrebbe essere
quello dei Sanguinetti che, come detto, si erano trasferiti in quella
Contrada, spostando anche la sinagoga di Via Cervetta.
Altra sinagoga viene segnalata
in Contrada S. Giorgio e precisamente in Via del Taglio: mancano indicazioni
che consentano di individuarne almeno la posizione. Teoricamente potrebbe
essere stata della famiglia Sacerdoti.
La difficoltà di individuare
con esattezza l'ubicazione e l'epoca degli antichi oratori o sinagoghe è
anche dovuta al fatto che, al momento della segregazione nel ghetto, g1i ebrei
furono obbligati ad inserirvi anche i luoghi di culto per cui, essendo per lo
più a carattere privato, se ne son perse le tracce.
Pur restando tassativo
l'obbligo di una sola sinagoga anche all'interno del serraglio (come
veniva chiamato il ghetto quasi che i rinchiusi fossero bestie feroci),
tuttavia i sefarditi, o iberici, onde poter conservare e tramandare i loro
rituali e le loro tradizioni, organizzarono una salaoratorio all'ultimo piano
del caseggiato di Via Coltellini, ora al n°25, di proprietà della famiglia
Rovighi. La struttura è rimasta la stessa di tipo tardo-medievale: l'accesso
è da un cortiletto, ora protetto da un cancello collocatovi nel dopoguerra,
in luogo di un antico rustico portone; sul fondo del cortiletto, sulla destra
e seminascosta, una ripida scala buia conduce ai piani. La sinagoga sefardita
funzionò sicuramente fino agli ultimi anni del 1800. Da notare che quel
tratto di Via Coltellini conserva ancora gli sparti medievali; sul
lato sinistro della cancellata, seminasco più di una sinagoga e che non
dovesse essere individuabile dall'esterno, tanto che spesso veniva eretta
all'ultimo piano dello stabile o con l'ingresso da un cortile interno.
Per salvare gli ebrei dalla
dura condanna inflitta, fu necessario il ricorso al Duca Borso ed al Papa
Calisto III, che ottennero una transazione, mercé (neanche a dirlo!)
l'esborso di una ingente somma.
Confrontando le date, si
potrebbe azzardare un'ipotesi, che cioè l'accusato sia stato Angelo da Fermo
(poi de Mutina) che godeva di buoni rapporti con Borso d'Este, ipotesi che
potrebbe essere avvalorata dal fatto che la sua Sinagoga situata nella
Cinquantina di San Salvatore, dove teneva il banco, nel l463 viene citata dal
notaio, in presenza del quale fu stilato il testamento dello zio e socio di
Angelo. L'atto notarile autenticava in tal modo l'esistenza di una sinagoga,
indicata come "Cappella in S. Salvatore" (la Via S. Salvatore è
parallela e successiva alla già citata Via Trivellari, dove risiedeva la
famiglia Sanguineti).
Angelo era il discendente della
quarta generazione di un tale Dataro da Fermo che nel 1395 si era trasferito a
Modena, con il banco in S. Salvatore e, probabilmente, vi istituì il suo
oratorio privato che potrebbe essere, se non il più antico, certo uno dei
primi.
Angelo morì nel 1484,
lasciando un patrimonio davvero ingente e ben 136 crediti, fra cui uno
notevole verso il Comune di Modena.
Nonostante i severi divieti
ecclesiastici, un altro oratorio non meglio precisato risulta fosse presso la
Chiesa dei Servi, "in vicinanza delle Case Forni". Potrebbe essere
quello dei Sanguinetti che, come detto, si erano trasferiti in quella
Contrada, spostando anche la sinagoga di Via Cervetta.
Altra sinagoga viene segnalata
in Contrada S. Giorgio e precisamente in Via del Taglio: mancano indicazioni
che consentano di individuarne almeno la posizione. Teoricamente potrebbe
essere stata della famiglia Sacerdoti.
La difficoltà di individuare
con esattezza l'ubicazione e l'epoca degli antichi oratori o sinagoghe è
anche dovuta al fatto che, al momento della segregazione nel ghetto, g1i ebrei
furono obbligati ad inserirvi anche i luoghi di culto per cui, essendo per lo
più a carattere privato, se ne son perse le tracce.
Pur restando tassativo
l'obbligo di una sola sinagoga anche all'interno del serraglio (come
veniva chiamato il ghetto quasi che i rinchiusi fossero bestie feroci),
tuttavia i sefarditi, o iberici, onde poter conservare e tramandare i loro
rituali e le loro tradizioni, organizzarono una salaoratorio all'ultimo piano
del caseggiato di Via Coltellini, ora al n°25, di proprietà della famiglia
Rovighi. La struttura è rimasta la stessa di tipo tardo-medievale: l'accesso
è da un cortiletto, ora protetto da un cancello collocatovi nel dopoguerra,
in luogo di un antico rustico portone; sul fondo del cortiletto, sulla destra
e seminascosta, una ripida scala buia conduce ai piani. La sinagoga sefardita
funzionò sicuramente fino agli ultimi anni del 1800. Da notare che quel
tratto di Via Coltellini conserva ancora gli sparti medievali; sul
lato sinistro della cancellata, seminasco più di una sinagoga e che non
dovesse essere individuabile dall'esterno, tanto che spesso veniva eretta
all'ultimo piano dello stabile o con l'ingresso da un cortile interno.
Per salvare gli ebrei dalla
dura condanna inflitta, fu necessario il ricorso al Duca Borso ed al Papa
Calisto III, che ottennero una transazione, mercé (neanche a dirlo!)
l'esborso di una ingente somma.
Confrontando le date, si
potrebbe azzardare un'ipotesi, che cioè l'accusato sia stato Angelo da Fermo
(poi de Mutina) che godeva di buoni rapporti con Borso d'Este, ipotesi che
potrebbe essere avvalorata dal fatto che la sua Sinagoga situata nella
Cinquantina di San Salvatore, dove teneva il banco, nel l463 viene citata dal
notaio, in presenza del quale fu stilato il testamento dello zio e socio di
Angelo. L'atto notarile autenticava in tal modo l'esistenza di una sinagoga,
indicata come "Cappella in S. Salvatore" (la Via S. Salvatore è
parallela e successiva alla già citata Via Trivellari, dove risiedeva la
famiglia Sanguineti).
Angelo era il discendente della
quarta generazione di un tale Dataro da Fermo che nel 1395 si era trasferito a
Modena, con il banco in S. Salvatore e, probabilmente, vi istituì il suo
oratorio privato che potrebbe essere, se non il più antico, certo uno dei
primi.
Angelo morì nel 1484,
lasciando un patrimonio davvero ingente e ben 136 crediti, fra cui uno
notevole verso il Comune di Modena.
Nonostante i severi divieti
ecclesiastici, un altro oratorio non meglio precisato risulta fosse presso la
Chiesa dei Servi, "in vicinanza delle Case Forni". Potrebbe essere
quello dei Sanguinetti che, come detto, si erano trasferiti in quella
Contrada, spostando anche la sinagoga di Via Cervetta.
Altra sinagoga viene segnalata
in Contrada S. Giorgio e precisamente in Via del Taglio: mancano indicazioni
che consentano di individuarne almeno la posizione. Teoricamente potrebbe
essere stata della famiglia Sacerdoti.
La difficoltà di individuare
con esattezza l'ubicazione e l'epoca degli antichi oratori o sinagoghe è
anche dovuta al fatto che, al momento della segregazione nel ghetto, g1i ebrei
furono obbligati ad inserirvi anche i luoghi di culto per cui, essendo per lo
più a carattere privato, se ne son perse le tracce.
Pur restando tassativo
l'obbligo di una sola sinagoga anche all'interno del serraglio (come
veniva chiamato il ghetto quasi che i rinchiusi fossero bestie feroci),
tuttavia i sefarditi, o iberici, onde poter conservare e tramandare i loro
rituali e le loro tradizioni, organizzarono una salaoratorio all'ultimo piano
del caseggiato di Via Coltellini, ora al n°25, di proprietà della famiglia
Rovighi. La struttura è rimasta la stessa di tipo tardo-medievale: l'accesso
è da un cortiletto, ora protetto da un cancello collocatovi nel dopoguerra,
in luogo di un antico rustico portone; sul fondo del cortiletto, sulla destra
e seminascosta, una ripida scala buia conduce ai piani. La sinagoga sefardita
funzionò sicuramente fino agli ultimi anni del 1800. Da notare che quel
tratto di Via Coltellini conserva ancora gli sparti medievali; sul
lato sinistro della cancellata, seminasco sto da uno sparto, è tutt'ora al
suo posto la targa K/948 in terracotta, della numerazione del 1786.
Proseguendo di alcuni passi sullo stesso marciapiede, troviamo al n. 33 la
targa K/949, mentre nella Piazzetta Molinari al n° 23, troviamo la piastra
K/973. Difatti il quartiere del ghetto era contrassegnato dalla lettera
"K" ed era posto sotto la giurisdizione della cattedrale.
Soffermatevi un attimo nella detta piazzetta e alzate gli occhi: al 3° piano
della facciata a sinistra resterete piacevolmente sorpresi di vedere un
balconcino in ferro battuto, leggermente bombato. Lo stile è prettamente
spagnolo: con tutta probabilità chi vi abitava era di orgine sefardita, cioè
spagnola.
Anche gli askenaziti ebbero un
proprio oratorio situato, pare, nella cosiddetta piazzetta, cioè il vicolo
che congiungeva, all'interno del ghetto, le due vie Coltellini e Blasia, e
precisamente nel caseggiato che fronteggiava l'attuale sinagoga e che fu
abbattuto nel 1903.
Esiste ancor'oggi un oratorio
con l'accesso da Via Coltellini n. 8/13, detto dei Donati, famiglia di origine
tedesca, dalla famiglia stessa sostenuto ed utilizzato in modo esclusivo. Fino
all'ultima guerra, i discendenti della famiglia Donati si riunivano in
occasione delle festività e tramandavano il rito ed i canti antichi e
tradizionali askenaziti.
Soltanto recentemente è emersa
l'esistenza, all'interno del ghetto, dell'Oratorio Usiglio con
ubicazione sconosciuta. La presenza di questo oratorio si deduce dal libretto
stampato nel 1854 contenente un sermone, tenuto in quel luogo nello stesso
anno dall'illustre e dotto rabbino Moisè Ehrenreich (chiaramente d'origine
tedesca).
A questo punto ci sarebbe da
chiedersi se sia mai esistita, dove fosse e chi la frequentasse, una sinagoga
di rito italiano prima di quella grande attuale, che definisco dell'emancipazione.
I Cimiteri
Dopo la casa ed il luogo di
culto, il cimitero rappresenta l'altro elemento indispensabile per il quale
gli ebrei dovevano richiedere l'autorizzazione. Il ciclo della vita si chiude
con la morte, un evento che presenta il problema di una adeguata sepoltura,
poiché la religione ebraica stabilisce che le salme siano seppellite in
terra, avvolte in un lenzuolo e che non debbano mai essere esumate. Perciò il
poter disporre di un terreno per tale uso è sempre stato di importanza
fondamentale, laddove si formava un insediamento ebraico. Problema e
preoccupazione perché il terreno "doveva" essere o in affitto
perpetuo o di proprietà e legalmente acquisito.
La prima notizia pervenutaci in
merito riferisce che, tramite l'ebreo Leone del fu Sabbatuccio, residente in
Modena, nel 1368 venne venduto, con contratto notarile, per incarico e per
conto di un certo Moyses Judeus, un orto situato nella cinquantina di San
Giacomo. L'acquirente, di cui non vengono date ulteriori notizie, intende
farne il luogo di sepoltura per sè e per la sua familia, per
seppellire secondo le norme e le leggi ebraiche, facoltà che era stata
concessa dal marchese Niccolò d'Este con decreto del 1366, com 'è scritto secondum
eorum consuetudinem et legem.
Se il Moyses aveva incaricato
l'ebreo Leone di agire per conto suo, può voler significare che o si era
trasferito da poco a Modena ma non aveva ancora tutti i crismi per risiedervi,
o aveva intenzione di abitarvi ed intendeva provvedersi in tempo utile di
tutto quanto fosse necessario, compreso il luogo di sepoltura.
Sicuramente vi saranno stati
altri casi precedenti simili a questo di Moyses, ma quest'orto situato ai
limiti delle mura è forse il primo luogo di inumazione ebraica di cui si ha
notizia certa.
All'epoca le salme cristiane di
ricchi o illustri personaggi venivano tumulate all'interno delle chiese,
oppure nel sagrato o nei dintorni (come ancora avviene, specie nelle zone
montane); gli ebrei invece cercavano terreni incolti che, per questo, venivano
definiti orti o, come a Modena, in termine dispregiativo, ortacci.
Sappiamo fosse obbligo che il terreno per uso cimiteriale ebraico dovesse
essere situato al di fuori della città, oltre le mura o al di là del fossato
che ne segnava il confine; il trasporto della salma doveva avvenire dopo il
tramonto, onde evitare il rischio di lazzi ed aggressioni del popolaccio (alle
volte veniva anche scortato da uomini armati); il corteo doveva comprendere
non più di dieci uomini.
Il cronachista Lancillotto nel
1551 cita l'esistenza di un ortaccio di discrete dimensioni che
copriva l'area ad est del fossato, tuttora denominato Vicolo Fosse, che era a
difesa della città nell'ampliamento del 1188; il fossato si prolungava almeno
fino all'attuale giardino pubblico, confluendo, pare, nel vicino Canal Grande.
Il terreno si estendeva dalla Via Emilia (allora Strada Maestra), comprendeva
l'attuale piazzale Boschetti e copriva lo spazio fino al Viale Caduti in
Guerra.
Anche lo Spaccini, nella sua
cronaca dell'anno 1598, narra di una sepoltura nel detto orto di un ebreo che
era rimasto ucciso a seguito del proditorio agguato teso da Cesare d'Este al
Principe Marco Pio, Signore di Sassuolo.
Nel 1621 probabilmente questo
cimitero era divenuto insufficiente e non in grado di accogliere nuove
inumazioni. Lo si deduce dal fatto che i fratelli Pellegrino e Samuele
Sanguinetti avevano convenuto di acquistare un terreno di proprietà degli
eredi Montecuccoli, nella zona detta di Terranova, cioè nell'Addizione
Erculea, al confine delle mura a settentrione della città, all'altezza del
Calle Bondesano (grossomodo nella zona della ex Manifattura Tabacchi), con
l'intenzione "di servirsene per seppellire i cadaveri loro e della
maggior parte dell'ebraismo".
Ma gli abitanti della vicina
Via Sgarzeria protestarono vivacemente affermando fosse disdicevole che un
cimitero ebraico sorgesse nelle vicinanze delle tante chiese e monasteri colà
esistenti. Così la questione fu rimandata e l'acquisto sospeso.
Viene allora spontaneo
chiedersi che ne fu dell'Orto di Vicolo Fosse. Nonostante le
rassicurazioni dei precedenti duchi, l'Università Israelitica fu costretta
nel 1659 (dovete notare che da oltre 20 anni gli ebrei erano stati relegati
nel ghetto!) a cedere quel terreno in favore delle Suore delle Carmelitane
Scalze che vi costruirono l'ancora esistente convento e la loro chiesa
(dedicata a Santa Teresa), che fu arricchita con le più belle lastre di marmo
delle tombe ebraiche!
I corpi non furono comunque
esumati ed ossa vennero alla luce quando, in Piazzale Boschetti, intorno agli
anni Sessanta, vennero eseguiti degli scavi per lavori di sistemazione
fognaria. Il Valdrighi riferisce che nell'area dell'ortaccio nel 1608
(sic) si fabbricarono anche "grandi forni pubblici e granai per l'impresa
frumentaria", presso l'odierna Chiesa del Carmine: segno che la zona
faceva ormai parte della vita attiva della città.
Nel frattempo sopravvenne la
terribile peste del 1630 (quella narrata nei Promessi sposi, tanto
per intenderci) che dimezzò la popolazione modenese ed anche quella ebraica.
Il problema si fece impellente; fu deciso che tutti i morti appestati
dovessero essere tumulati fuori città, sia pure in campi diversi per ebrei e
cristiani. Questi ultimi furono tumulati nel lazzaretto, di cui è rimasta la
stupenda chiesina totalmente affrescata di San Lazzaro. Agli ebrei fu
assegnato un terreno incolto che occupava l'area fra la Via Emilia ed il
canale Pelusia, "nel sobborgo di San Silvestro".
Qualche anno dopo fu concesso
di ampliare e acquistare altro terreno adiacente, indicato come "fuori
Porta Bologna" e che diventerà con altre successive annessioni, nel 1808
e nel 1846 con rogito Bortolotti, un Cimitero di notevole ampiezza.
Ma intanto, alla fine del
Settecento e nei primi anni dell'Ottocento, norme severe riguardanti le
tumulazioni emanate con le leggi sanitarie napoleoniche imposero mutamenti
sostanziali: fu fatto divieto assoluto di seppellire i cristiani entro le mura
della città e nelle chiese; nel 1808 furonoimposte regole precise anche per
il cimitero di Via Pelusia, fra cui l'arretramento delle tumulazioni a
maggiore distanza dalla Via Emilia, l'erezione
di un muro di cinta tutto
attorno e l'obbligo di disporre le tombe "secondo la libera ventilazione
in direzione del nord".
Nel frattempo la città si
espande; nei primi mesi del Novecento viene posto il divieto di ulteriori
sepolture in Via Pelusia (divieto che non viene rispettato) e viene stipulato
un rogito con il Comune che assegna un reparto di 10.000 mq. del terreno
cimiteriale comunale in zona San Cataldo.
Ma la storia non finisce qui:
nel 1939, il Podestà chiede ad Adamo Pedrazzi una relazione sul cimitero di
via Pelusia. La relazione è abbastanza dettagliata, ma il linguaggio risente
evidentemente del clima di odio instaurato dal regime fascista con le leggi
razziali emanate l'anno prima.
Così ancora una volta, come
nel caso precedente dell'Ortaccio, gli ebrei non hanno pace nemmeno
dopo morti. La Comunità Israelitica venne costretta a stipulare un contratto
di compra-vendita nell'aprile 1940, ufficialmente con un privato, per
mascherare la requisizione fascista del cimitero. L'accordo comprendeva
l'impegno del Comune di esumare e trasferire le salme e le lapidi monumentali
in un campo appositamente riservato entro l'area del reparto ebraico assegnato
in San Cataldo.
Soltanto dopo la guerra, fra il
1946 e il 1948, a seguito di una sentenza del Tribunale, venne dichiarata
nulla la compravendita fittizia del 1940 e fu stipulato regolarmente un atto
notarile (Rogito del luglio 1948) con compensazione per la Comunità.
Su quel terreno sono nati
grandi palazzi moderni, lunghe strade rettilinee: un intero quartiere nuovo.
Il muro che recintava il Cimitero di Via Pelusia e che vegliava sul riposo
"eterno" degli ebrei ivi sepolti, fu abbattuto; resta tuttora
malamente visibile un breve tratto e alcuni cipressi ancora svettano verso il
cielo, fra ruderi di vecchie officine, rottami e vetri infranti: purtroppo non
sarà facile rintracciare quel luogo che un impietoso oblio ha trascurato!
Le antiche lapidi, in parte
danneggiate, furono trasferite nel campo riservato di San Cataldo e ci
raccontano di donne e di uomini, persone così lontane eppure ancora cosi
vive, per quel non so chè di ricordi, di nostalgia, di romantico, di vero ed
umano che le epigrafi ci trasmettono.
Se vorrete visitare il reparto
ebraico del Cimitero di S.Cataldo e percorrere i vialetti, noterete quale
senso di pace e di serenità aleggia in quel luogo. Il nostro cimitero non ha
carattere monumentale. Una cancellata sul muro di cinta sulla Strada San
Cataldo consente l'ingresso diretto in caso di funerali o cerimonie. Di fronte
al cancello si erge un piccolo edificio, eretto nel 1903, che viene aperto in
occasione di una tumulazione e dove si sosta alcuni minuti per recitare salmi
e preghiere e, se del caso, per qualche parola di commiato.
La cassa, posta sul catafalco,
prima della tumulazione viene traforata con il trapano in alcuni punti,
perché non potendo sistemare la salma direttamente nel terreno, secondo il
rito, possa comunque il più rapidamente possibile tornare alla terra di
cui è figlia.
In una stanzetta appartata
dello stabile, sono poste sugli scaffali delle urne cinerarie: infatti sebbene
sia contro le regole, alcuni ebrei vengono cremati. Uno di questi fu Angelo
Fortunato Formiggini, che si suicidò gettandosi dalla Ghirlandina nel 1938, a
seguito delle leggi razziali. Nel dopoguerra si scoprì che alcune urne erano
state rubate e profanate da ladri ignoti probabilmente pensavano di trovarvi
dei tesori; una di queste fu proprio quella del Formiggini.
Girando fra le tombe, noterete
che non vi sono ritratti o fotografie dei defunti (salvo qualche
trasgressione), per rispetto del divieto contenuto nei Comandamenti di non
fare immagine alcuna.
Richiamerà la vostra
attenzione una tomba posta accanto all'ingresso secondario del muro di cinta:
è quella di Pio Donati, che è separata con una lastra di vetro dal settore
adiacente cattolico, ai cui piedi è sepolto Francesco Luigi Ferrari:
simbolica e commovente sepoltura che unisce nella morte due uomini di fede
diversa, ma accomunati dagli stessi ideali di libertà e antifascismo, per i
quali subirono insieme l'esilio e le percosse che li condussero alla morte in
Francia.
La Contrada del Catecumeno
L'attuale Via dei Tintori che
sbuca a levante su Canalgrande e sul lato opposto sfocia su Via Canalino era
denominata Contrada del Catecumeno perché vi era stata requisita una
casa, quartiere H 719, verso la metà del Seicento, ove rinchiudere coloro che
avevano manifestato l'intenzione di abbracciare il cattolicesimo.
Gli aspiranti venivano
là catechizzati e non ne potevano uscire fino a che non erano dichiarati
pronti a ricevere il battesimo.
Già dal 1583 il Comune pagava
l'affitto di una delle caselle presso S. Girolamo per l'uso suddetto,
ma l'intolleranza verso gli ebrei del Seicento, in piena controriforma, la
furia gridata in pèrgamo dal fanatico frate Bartolomeo Campi e sostenuta
dalla duchessa Laura Martinozzi, nonchè l'istituzione del ghetto, richiese
un'organizzazione più controllata. Spesso la miseria e la speranza di
liberarsi dal giogo del ghetto, più che la sincera vocazione, spingevano
alcuni a fare questo passo. Ma la quasi impossibilità di ritornare sui propri
passi, lo stato di stretta clausura cui erano sottoposti, crearono talvolta
seri problemi con episodi drammatici e casi di violenza psicologica. La
duchessa aveva fatto porre due portoni creando una specie di ghetto, allo
scopo che nessuno potesse percorrere quel tratto di strada e soprattutto che
coloro che erano rinchiusi nella Casa del Catecumeno non potessero udire il
ben noto richiamo degli strazzari o zavaiari ebrei, che
circolavano con il carretto per le strade della città per la raccolta degli
stracci, onde i catecumeni non fossero còlti dalla nostalgia dei
correligionari e dei familiari che avevano rinnegato. Per maggiore scherno, le
spese per il mantenimento dei catecumeni, fino al momento del battesimo,
dovevano essere a carico della Comunità ebraica!
Il ghetto
Le strade del primo ghetto,
questa specie di carcere a cielo aperto, erano: a ponente Via Coltellini (o
Cortel1ini, già Via de' Macàri) e a levante Via Blasia (da una ex-chiesa di
San Biagio, già Via del Sole).
Le strade del mezo gheto,
incluse in un secondo tempo, nel 1724, furono: (venendo dalla Via Emilia) le
case del lato destro della Via Torre (già Contrada S. Domenico) e le case sul
lato sinistro del Vicolo Squaròa (ora denominato Squallore, per corruzione
del termine). Naturalmente le case di questo settore non avevano accesso sulle
strade stesse e le finestre dei primi piani erano armate da robuste
inferriate per evitare il pericolo che qualcuno si potesse calare
nascostamente in piena notte e uscire dal ghetto.
Al momento della ghettizzazione
nel 1638 vi furono rinchiusi oltre 1200 anime, in condizione di grave disagio
e promiscuità, igienicamente spaventose, e come risulta dall'archivio, alle
volte in tuguri senza finestra e senza aria.
I portoni che serravano il
ghetto erano 4: due sulla Via Emilia e due sul lato di Via del Taglio; le
chiavi erano affidate al portonaro, incarico molto ambìto affidato
per legge ad un cristiano che, ironia della sorte, gli ebrei stessi erano
tenuti a stipendiare e ad assicurare un alloggio: sarebbe come se i carcerati
dovessero mantenere i propri carcerieri!
In alcuni casi si verificarono
degli incendi spaventosi e la chiusura dei portoni ostacolò le fughe ed i
soccorsi, richiamati dalla campana della fogarola. Una cronaca
dell'epoca descrive la tragedia che coinvolse una giovane madre salita sul
tetto con il figlio più piccolo al seno e gli altri aggrappati alle vesti: i
soccorsi non giunsero in tempo e, fra grida strazianti, tutti morirono avvolti
dalle fiamme.
Salvo le varie e brevi
interruzioni tra le dominazioni napoleonica e quella austriaca, tra le fughe e
i ritorni del duca, il ghetto fu definitivamente abbattuto nel 1859 con
l'unificazione del Regno d'Italia. In 220 anni, quante generazioni hanno
subito l'umiliazione e la degradazione fisica e psicologica della
segregazione? Esiste una relazione sull'argomento svolta durante il Convegno
sulle Comunità nel 1998 da Stefano Arieti che fa rabbrividire.
La reazione all'emancipazione
si vide subito: la possibilità di studiare nelle scuole pubbliche e nelle
Università, di professare le arti liberali e di potersi spostare in altri
luoghi e addirittura intraprendere attività amministrative, di diritto
pubblico e militare comportò un generale miglioramento economico e sociale,
ma favorì l'esodo provocando la dispersione del nucleo originale ebraico
locale verso centri che offrivano nuove prospettive di vita.
Eppure, non dobbiamo
dimenticare che, durante quei due secoli, in tale ambiente disperato, fiorì
la famosa Yeshivà (Scuola) del Tedesco, un centro di studi
ebraici e cabbalistici, meta di studiosi a livello internazionale.
Fra i Maestri Rabbini illustri
ricordiamo, tra gli altri, Abramo Graziani, Aron Berechiach da Modena, Abramo
Rovigo, Israele Cohen. Il livello culturale era tanto alto che Moisè Beniamin
Foà già abile stampatore, dal 1773 ebbe l'incarico dal Duca Francesco III di
Provveditore della Real Biblioteca: girando l'Europa acquistò preziosi
incunaboli, codici e volumi miniati, carte del Cinquecento, ecc. che
costituiscono il fondo della Biblioteca Estense.
Il complesso delle Sinagoghe
attuali
Ed ora entrate con me nella
Grande Sinagoga di Piazza Mazzini: resterete sorpresi nel vederne l'ampiezza,
la maestosità ed il gusto neo-classico raffinato. In alto tutto attorno,
sostenuta dalle possenti colonne, corre una galleria con balaustra: è il
matroneo, dove cioè devono stare le donne durante le funzioni. La separazione
degli uomini dalle donne durante le funzioni è puramente tradizionale, risale
ad epoca antichissima e fu adottata nei primi secoli anche nelle basiliche
paleocristiane ed è tuttora praticata dal culto musulmano. Al centro della
parete verso est (e cioè idealmente verso Gerusalemme) in posizione più
elevata, c'è un Aron fastoso: è l'armadio dove sono racchiusi i sefarim,
cioè i rotoli di pergamena antichi su cui è scritta da amanuensi la Torah,
cioè la Bibbia. Noterete che non vi è immagine alcuna, come è prescritto
dai Comandamenti; arredamento, vetrate e lampadario, tutto risale all'epocadella
costruzione.
La sala dove sono i banchi
riservati agli uomini è sovrastata da una grande cupola a base ellittica,
affrescata a cielo notturno.
Nel 1869, a soli dieci anni
dall'emancipazione, si iniziarono i lavori per abbattere alcune vecchie case e
far posto alla nuova Sinagoga che doveva essere, quasi per rivalsa,
orgogliosamente imponente e, in un certo senso, eguagliare la sontuosità
delle Chiese cittadine. Nonostante le difficoltà economiche, la Sinagoga era
già pronta per l'inaugurazione nel dicembre 1873.
Architetto fu Ludovico
Maglietta, che si rifece allo stile neo-classico, sia per l'interno che per
l'esterno, con le quattro semicolonne a capitello di tipo corinzio, che
sostengono l'architrave su cui poggia il timpano. La parte decorativa fu
assegnata a Ferdinando Manzini, pittore e plastico noto ed apprezzato avendo
lavorato per numerosi monumenti modenesi.
Ma ciò che caratterizza la
Sinagoga modenese e che la rende unica, è l'avere due facciate perfettamente
identiche, di cui quella prospiciente la Via Coltellini è la principale,
perché la porta di accesso fronteggia l'Aron. Questa porta viene
aperta soltanto in occasioni particolari.
L'ingresso da Piazza Mazzini
conduce in un atrio quadrangolare, illuminato da un grande lucernaio, che, con
un sistema di catene, viene aperto in occasione della festa di Succot, quando
si allestisce all'interno la capanna, o Succà.
Sulle pareti di questo atrio vi
sono varie lapidi, fra cui quelle in ricordo dei fondatori del tempio e in
memoria dei deportati.
Discendendo alcuni gradini dal
corridoio laterale, si può vedere dove era in funzione fino ai primi anni del
Novecento la profonda vasca per il bagno rituale, o Mikvè, uno degli
obblighi dell'ebraismo, ora non più funzionante: per il Mikvè occorre
acqua di sorgente, o di pozzo, o piovana.
Fermatevi sulla Via Emilia,
volgendo le spalle alla Piazzetta delle Ova: di fronte, anche se oggi è un
po' nascosta dalle frondose piante, si nota la facciata imponente e assai
scenografica della Sinagoga, che fa da quinta alla Piazza Mazzini (già Piazza
Libertà). Finché era nascosta dal grande isolato che esisteva prima che
venisse abbattuto nel 1903, ben pochi modenesi se n'erano accorti. In seguito,
invece, stando sulla Via Emilia, il Tempio era ben in vista e molti "ben
pensanti" gridarono allo scandalo e perfino sulla Gazzetta apparvero
articoli di disapprovazione. Ci fu chi voleva alzare un muro; un altro
progetto, come ci informa lo storico Gino Lucchi, prevedeva l'abbattimento del
Tempio per sostituirlo con il Palazzo delle Poste; nel 1907 fu pure proposto
un progetto di un viale alberato che, partendo dalla Piazzetta delle Ova,
sboccasse in Piazza Roma. Per fortuna nulla di tutto questo fu intrapreso, ma
ai proprietari delle case sui due lati della piazza, nella quasi totalità
ebrei, fu imposto il rifacimento e l'abbellimento delle facciate,
l'allineamento e l'abbattimento del portichetto sulla sinistra, che faceva
parte della Via Coltellini. Il che ha reso, certamente, più armoniosa ed
esteticamente agréable la facciata stessa della Sinagoga.
Proseguendo, nella visita del
complesso sinagogale, entriamo dal portone di Via Coltellini al n° 10: subito
alla sinistra, ai piedi della scala, una porta dà accesso ad un grande
ambiente, seminterrato, tuttora da restaurare: si tratta di quello che veniva
chiamato il forno delle azzime:un grande camino serviva, ancora agli
inizi del Novecento, a cuocere il pane azzimo per la festa pasquale.
Nell'ambiente stesso, sotto la sorveglianza rabbinica, le azzime venivano
confezionate a mano e poi immediatamente cotte su grate di ferro: vi assicuro
che erano veramente buonissime, più di quelle che oggi vengono confezionate a
macchina e che ci pervengono dalla Francia e da Israele.
Nell'immediato dopoguerra in
questo locale era stata allestita una cucina di fortuna per i profughi ed i
viandanti che passavano per Modena diretti alla ricerca delle proprie
famiglie. Anche alcuni membri della Brigata Ebraica vi furono sfamati!
Salendo le scale, al secondo
piano, potrete visitare, l'Oratorio di rito Tedesco, o dei Donati, che viene
attualmente utilizzato dalla Comunità per le proprie funzioni durante la
stagione invernale.
Si tratta di una sala
rettangolare sobriamente, ma elegantemente, decorata, di recente restaurata,
orientata correttamente verso est. Al centro di questa parete c'è un
settecentesco Aron, laccato in bianco e oro: è l'armadio in cui
vengono riposti i sefarim, le pergamene della Torah.
I banchi per i fedeli
circondano la Tevah, cioè il leggio su cui si appoggia l'ufficiante
per la lettura dei testi; questa disposizione è tradizionale delle sinagoghe
di rito sefardita ed askenazita.
Salendo ancora di un piano si
trova un appartamento che, nel periodo delle persecuzioni razziali, era stato
adattato ad accogliere i bambini ebrei ed i ragazzi che erano stati cacciati
dalle scuole statali e naturalmente anche gli insegnanti erano ebrei che
avevano perduto il posto e la fonte del loro sostentamento. Per chi ha
frequentato quella scuoletta, quel periodo è rimasto memorabile!
Per la costruzione
dell'edificio sinagogale la spesa fu di 130.000 lire, escluso il costo delle
case di proprietà ebraica che vennero abbattute.
Non bastò l'elargizione di
Moisè Isacco Sacerdoti, ex banchiere del duca, non coniugato, che lasciò
tutto il suo patrimonio per la costruzione del tempio: vi concorsero decine di
famiglie che sottoscrissero un prestito con cedole ad interesse per una somma
complessiva di 40.000 Lire.
Quando fu costruito, l'ambiente
era insufficiente a contenere tutti i fedeli, particolarmente nelle feste
solenni. Così si ricorse a numerare i posti a sedere, dietro il versamento di
una specie di tassa. Oggi, purtroppo, il numero degli ebrei modenesi è
ridottissimo, tuttavia la frequenza consente di svolgere le funzioni
normalmente. Noi siamo orgogliosi della nostra Comunità che ebbe un'antica
origine, e siamo certi che numerosi suoi membri hanno contribuito a dare
lustro alla città che ci ha accolto.
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[Fonte: UCEI]
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