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Israele. Diritto alla difesa
Magdi Allam, su Corriere della Sera 14 luglio 2006
È guerra, guerra vera, ormai. Il Medio Oriente
rischia un nuovo, grande incendio. Ieri la battaglia che è divampata nel Sud
del Libano ha raggiunto Beirut e colpito anche la città israeliana di Haifa che
non aveva più conosciuto attacchi dall’esterno fin dal 1991, quando erano
stati i missili Scud a ferirla durante la prima guerra del Golfo. Il governo
libanese prende le distanze dall’Hezbollah e un suo ministro accusa la Siria.
Il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen minaccia le dimissioni in
segno di protesta contro Hamas. L’allarme sale in tutto il mondo. E l’Italia?
Da che parte sta? E’ difficile trovare il bandolo, nonostante gli sforzi della
nostra diplomazia e gli apprezzabili tentativi di cercare una soluzione da parte
del ministro degli Esteri Massimo D’Alema.
Legittimamente partono da Roma appelli alla
moderazione, ma insistere sulla «reazione sproporzionata e pericolosa di
Israele», come ha fatto ieri lo stesso D’Alema, rischia di nascondere un
elemento centrale della crisi, e cioè il diritto di Israele a difendersi. Sono
le stesse autorità arabe direttamente colpite dalla rappresaglia militare
israeliana a rilevare che all’origine di questa spirale di violenza c’è un’iniziativa
terroristica sponsorizzata dall’Iran e dalla Siria, sferrata da territori,
Gaza e il Libano meridionale, che non erano occupati. Non possiamo dimenticarlo.
Così come non possiamo far finta che non esista una guerra globalizzata del
terrorismo islamico, a dispetto dell’evidenza del legame operativo tra Hamas,
Hezbollah, Siria, Iran e della loro collusione ideologica con i gruppi e le
cellule imparentate ad Al Qaeda in tutto il mondo, uniti dall’odio nei
confronti di Israele, dell’America e della civiltà occidentale. La scelta
dell’equivicinanza non potrà comunque condurci a mettere sullo stesso piano
Israele e Hamas, Israele e l’Hezbollah, Stati Uniti e Iran.
Nella sua visita in Italia, Kofi Annan ha
chiarito che per l’Onu la lotta al terrorismo non è una fandonia, che è
assolutamente vitale che il nostro Paese mantenga le sue forze in Afghanistan e
che anche il ritiro dall’Iraq dovrà avvenire «al momento opportuno, per
evitare che la situazione esploda». I fans dell’Onu in seno al governo ne
tengano conto: o danno ascolto ad Annan oppure sarebbe meglio che smettessero di
strumentalizzare le Nazioni Unite. La guerra esplosa in Medio Oriente potrebbe
rivelarsi ben più seria e di più lunga durata, coinvolgendo direttamente la
Siria e l’Iran. È possibile che Israele decida di regolare i conti non
tanto con i kamikaze o con i guerriglieri che lanciano i katiusha, bensì con i
burattinai dei terroristi che pianificano la distruzione dello Stato ebraico.
Trattandosi di una partita in cui non avrebbe l’opzione della rivincita,
Israele è costretta a difendere la sua esistenza sino in fondo. Se l’Italia
ha veramente a cuore la causa della pace in Medio Oriente, il diritto dei
palestinesi a uno Stato indipendente e l’interesse dei libanesi alle
sovranità e dignità nazionali, deve restare a fianco di Israele e svolgere
sino in fondo il suo ruolo nella guerra al terrorismo internazionale.
Di fronte alla difesa del terrore, è un grave
errore giustificare Hamas e Ahmadinejad, che l’Ue non può legittimare
sostenendo che sono stati eletti dai loro popoli
I diritti di Israele: una
prova per l’Occidente
Magdi Allam, Corriere della Sera 19
luglio 2006
Al di là delle differenti opinioni sulla nuova
crisi in Medio Oriente, emerge che per gran parte del mondo il diritto di
Israele all’esistenza è una variabile dipendente, non un principio
inviolabile delle relazioni internazionali. Anche il nostro Occidente legittima
pienamente non soltanto degli Stati che non hanno relazioni diplomatiche con
Israele, ma si dicono pronti ad averle qualora sorgesse uno Stato palestinese,
ma legittima anche quegli Stati e gruppi che hanno scatenato una guerra del
terrore e predicano l’annientamento di Israele.
È una riflessione che s’impone quando da parte
dei governi, dei parlamenti nazionali e dell’Unione Europea si deplora l’uso
«eccessivo» della forza o la reazione «sproporzionata » di Israele,
limitandosi a mettere a confronto un certo numero di israeliani uccisi contro un
numero maggiore di vittime palestinesi e libanesi, l’impiego di aerei e
lanciamissili contro kamikaze e razzi. Senza contestualizzare gli eventi
bellici, citando en passant la volontà di distruggere Israele quasi si
trattasse di uno dei tanti elementi della crisi. Finendo per mettere sullo
stesso piano l’attentato terroristico sferrato da chi disconosce il diritto di
Israele all’esistenza e la rappresaglia militare di chi difende il proprio
diritto alla vita. E nella condanna indistinta della violenza e nell’appello
generico alla pace, si finisce di fatto per legittimare il terrorismo.
Occultandone la natura aggressiva, giustificandolo come «reazione» ai
bombardamenti, nobilitandolo come «resistenza » all’occupazione. In questo
clima saturo di disinformazione la realtà viene mistificata, i pregiudizi
religiosi e ideologici nei confronti di Israele riesplodono con modalità e
graduazioni diverse.
Ebbene, una corretta informazione fa emergere
come l’inizio della crisi sia stato l’attentato terroristico compiuto il 25
giugno scorso da un commando di Hamas, partito da Gaza non più occupata, che ha
ucciso due soldati israeliani e rapito un terzo. Un’iniziativa che ha voluto
sabotare la speranza della ripresa del negoziato, riaffiorata dopo il vertice
tra il presidente palestinese Abu Mazen e il premier israeliano Olmert a Petra
il 22 giugno, sotto gli auspici del re giordano Abdallah II. Un copione già
visto quando nell’ottobre del 1993 Hamas scatenò per la prima volta i suoi
kamikaze sugli autobus a Gerusalemme e Tel Aviv per sabotare il nascente
processo di pace siglato il 13 settembre 1993 a Camp David tra Arafat e Rabin.
Successivamente alla rappresaglia militare israeliana a Gaza, è scattata la
seconda fase della crisi. L’8 luglio i terroristi dell’Hezbollah sono
penetrati in territorio israeliano, partendo dal Libano meridionale che non è
più occupato dal 2000, uccidendo otto soldati e sequestrandone due. In questo
caso si è trattato di un terrorismo su procura per scatenare un conflitto in
Libano al fine di alleggerire la pressione della comunità internazionale nei
confronti dell’Iran sulla questione del nucleare. Un copione simile a quello
di Saddam, quando il 3 giugno 1982 commissionò a Abu Nidal l’uccisione dell’ambasciatore
israeliano a Londra, Shlomo Argov, determinando la decisione israeliana di
invadere il Libano il 6 giugno, al fine di distogliere l’attenzione dal
massacro, con i gas chimici, di migliaia di soldati iraniani a un passo dalla
presa di Bassora.
La legittimazione di Hamas, Hezbollah, Assad e
Ahmadinejad viene accreditata sulla base del fatto che sono stati liberamente
eletti dai rispettivi popoli. Ebbene, oggi è l’Occidente per primo, dal
momento che è impegnato nella diffusione della democrazia nel mondo, a dover
rispondere a un quesito fondamentale: può essere considerato democratico chi
nega il diritto all’esistenza di Israele e pratica il terrorismo per
distruggerlo? Ed è l’Occidente per primo, a circa 60 anni dall’Olocausto
degli ebrei frutto del regime nazista andato anch’esso al potere
democraticamente, a doversi pronunciare in modo inequivocabile sulla
legittimità delle forze islamiche «democratiche» che stanno promuovendo una
guerra volta a cancellare la patria degli ebrei dalla carta geografica. Ecco
perché dovrebbe essere proprio l’Occidente a prendere l’iniziativa di
accreditare sul piano del diritto internazionale che il diritto di Israele all’esistenza
è un principio inalienabile e un valore incontrovertibile che sostanzia la
democrazia. Che, pertanto, predicare e operare per la distruzione di Israele è
un crimine contro l’umanità e una negazione della democrazia, che non può
prescindere dal riconoscimento del diritto alla vita e alla libertà di tutti.
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