Messaggio per il 1999 alle Chiese Cristiane d'Italia 
     Amos Luzzatto,  Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI)

 


Messaggio di fine millennio

Se intendete cercare, cercate: tornate, venite!” (Isaia 21, 12) 

Stiamo uscendo da due secoli di aspre contrapposizioni che sembrano avere introdotto in Europa - e diffuso da qui a tutto il resto del mondo - motivi di conflittualità che a giusta ragione possono dirsi moderni, sia perché sono collegati a un nuovo modo di essere della società, sia perché sono applicabili dovunque e possono dirsi "globali".

In una prima fase, le contrapposizioni sono state rappresentate dai nazionalismi, che si sono rivelati ovunque aggressivi, espansionisti, colonizzatori e intrinsecamente razzistici. In una seconda fase, essi si sono variamente intrecciati con gli ideologismi, che a volte sono stati nazionali, altre volte sopranazionali; partendo anche da istanze di riscatto sociale o nazionale, gli ideologismi hanno tentato di adattare le realtà sociali, culturali, psicologiche dell'umanità a un sistema di pensiero che avrebbe voluto dettare soluzioni già giustificate "a priori", con conseguenze pratiche quasi sempre drammatiche.

In questa cornice, il Cristianesimo e l'Ebraismo si trovavano di fronte a sfide inedite. Le due religioni avevano sperimentato diciotto secoli di rapporti complessi, per lo più difficili e sofferti,fortemente caratterizzati dal fatto di essere stata la prima, in Europa, religione maggioritaria e quasi ovunque intrecciata con le strutture del potere nella società; la seconda, al contrario, minoritaria e per lo più discriminata o addirittura apertamente e violentemente perseguitata. Le nuove sfide erano impellenti; esse dovevano essere affrontate anche prima di avere avviato a soluzione i loro confronti tradizionali, da quelli teologici a quelli sociali e istituzionali. Ne derivava, sia per gli uni che per altri, una sollecitazione a farsi coinvolgere nel quadro delle nuove confiittualità, spesso come singoli ebrei o singoli cristiani, altre volte come gruppi particolari ebraici, cristiani, culturali, professionali; ma altre volte nella loro stessa realtà di istituzioni specifiche, di comunità.

Dopo le vicende della seconda Guerra mondiale, che furono tanto drammatiche per l'umanità tutta, ma eccezionalmente drammatiche e distruttive per gli ebrei d'Europa, si fece strada, lentamente e faticosamente, il convincimento che fosse necessario un dialogo diretto tra Ebraismo e Cristianesimo, un dialogo che non fosse tradotto e semplicisticamente ricodificato nei termini degli altri conflitti, delle nuove contrapposizioni che si contendevano la scena.

Si prospettavano due possibili strade.

La prima era semplicemente quella di ritornare alla scena tradizionale, che, in questa visione, sarebbe stata erroneamente interrotta. Si sarebbe trattato di riprendere il confronto teologico; esso avrebbe avuto l'obiettivo vicino di trovare il massimo possibile di convergenze nell'ambito del monoteismo, della morale sessuale e familiare, della coscienza e della valorizzazione di quella tradizione che si riteneva essere stata comune alle due religioni, almeno fino allo scisma del I secolo. Spesso restava sullo sfondo, a più lunga scadenza, un altro obiettivo implicito, che confidava in una progressiva convergenza delle due religioni fino alla loro fusione e che la maggior parte degli ebrei viveva come una pressione per la loro pura e semplice conversione.

Negli ultimi anni si è cominciato a capire che è più corretto, dopo Auschwitz e dopo la fondazione dello Stato di Israele, non tanto riprendere un percorso interrotto attorno a due secoli fa, quanto semmai scoprirne uno nuovo. Si tratta certamente di un percorso dai contorni più complessi. E' più facile infatti esporre dogmi diversi e confrontarli fra di loro; è più facile paragonare principi di fede e regole liturgiche che non ricercare i rapporti fra una comunità quale quella cristiana, che è costituita per definizione da coloro che accettano una determinata fede e una comunità quale quella ebraica, che è già "strutturata a priori" e che si riconosce semmai nel compito di educare alla propria religione coloro che già appartengono alla comunità stessa (o che aspirano ad appartenervi). Ne derivano due identità di gruppo di carattere diverso; due identità che, accanto a indiscutibili componenti simili, ne possiedono altre qualitativamente diverse.

E tuttavia, malgrado questi aspetti che potemmo dire di incommensurabilità, vi sono molte motivazioni che spingono al dialogo cristiano-ebraico, anche se al presente con obiettivi che potrebbero apparire limitati.

Vi è in primo luogo la necessità di una conoscenza reciproca, che non sia strumentalizzata alla disputa, cioè alla polemica condizionata da preconcetti.

In secondo luogo, la chiara volontà di operare per promuovere, nel concreto, iniziative di Pace e di salvaguardia del Creato.

Terzo, la comune ricerca di un affratellamento dell'umanità nel sincero rispetto delle peculiarità altrui, nella ricerca di una convivenza e non di una separazione, nel ripudio di qualsiasi discriminazione razziale, ideologica, religiosa; con il comune impegno di non far più sorgere gruppi umani privilegiati e dominanti a fronte di gruppi umani "inferiori", oppressi, sfruttati e perseguitati. 

Noi ebrei italiani, ma sarebbe meglio dire oramai "ebrei d'Europa", abbiamo fortemente contribuito, dalla Spagna alla Germania, alla Polonia, alla stessa Russia, in particolare in Italia, a costruire una cultura, a contribuire alla storia di questo continente, pur appartenendo quasi sempre, purtroppo, alle sue minoranze, spesso perseguitate e cacciate di Paese in Paese. 

Le ere dei nazionalismi e delle ideologie parevano, ciascuna a suo modo, promettere tempi di pace e di integrazione. Così non è stato. Noi siamo ancora qui, convinti forse ancora più che nel passato di avere una nostra identità complessa da difendere e da sviluppare; di avere qualcosa di specifico, dei valori da offrire alla costruzione dell'Europa stessa. 

A questo servono fra l'altro i nostri stessi legami con gli ebrei di Israele, con la loro rinnovata realtà culturale e sociale. Il rafforzamento della nostra identità non è dunque un ripiegarsi, un chiudersi su noi stessi, ma, al contrario, quanto di meglio possiamo offrire per dialogare con gli altri, per meglio collaborare con quanti intendano operare per un avvenire migliore per tutti in una società di fraterna convivenza di identità diverse e, pertanto, pluralista. 

Questa è la prospettiva che sentiamo autenticamente nostra. Confidiamo che sarà possibile accoglierla. 

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