Israele sopravvive
sull'orlo di un baratro nel quale rischiano di precipitare
insieme la sua esistenza fisica e la sua integrità morale,
come dimostra la tragedia di Jenin. La supremazia militare
che in passato gli ha consentito di resistere ai tentativi
di annientamento messi in atto dal mondo arabo, oggi
potrebbe sfociare in un delirio di autosufficienza,
prolungandone forse l'agonia ma senza impedirne la disfatta.
Per questo dobbiamo far sentire la nostra voce agli
israeliani, sapendo che la guerra non risolve di per sé
alcun problema.
Ma deve essere innanzitutto una voce di comprensione per il
loro dramma e di sincera partecipazione al loro destino.
Nessuno ha il diritto di chiedere loro: smettetela di
difendervi dal terrorismo suicida che vuole instaurare uno
Stato islamico su tutta la terra di Palestina, provocando
una nuova diaspora fra gli israeliani più fortunati (cioè
quelli che hanno parenti in Europa, Canada, Stati Uniti) e
riservando agli altri (gli orientali, i russi) una sorte
ancor più terribile.
A differenza di molti ebrei disperati, continuo a pensare
che la salvezza d’Israele dall’annientamento e dalla
perdizione resti un obbiettivo condiviso anche da chi ebreo
non è. Nego che l’Occidente sia impegnato in una guerra
santa con l’Islam e a maggior ragione nego che possa
decidere di sacrificare gli ebrei per amor di pace. Siccome
però qualcosa di simile è avvenuto non più tardi di
sessanta anni fa, sarà bene farci un esame di coscienza
supplementare.
Dobbiamo chiedere, innanzitutto a noi stessi, se potremmo
mai accettare da un punto di vista etico, religioso,
politico, e perfino di convenienza, la cancellazione dello
Stato ebraico rinato solo cinquantacinque anni fa nei luoghi
della Bibbia, interrompendovi l’omogeneità della presenza
islamica. Non è una domanda oziosa, né un tentativo di
minimizzare i torti inflitti ai palestinesi dal 1967 in poi.
In passato la supremazia militare poteva salvaguardare forse
Israele dalle stesse insidie della demografia, ma solo fin
tanto che il fondamentalismo islamico non ha assunto un peso
decisivo in Medio Oriente, stravolgendo le categorie
tradizionali della deterrenza bellica grazie alla pratica
sistematica del terrorismo suicida, nobilitato come
martirio.
Si tratta di una novità sconvolgente ma ancora
purtroppo sottovalutata nelle sue potenzialità, nonostante
siano già centocinquanta i giovanissimi shahid che hanno
eluso gli apparati di sicurezza israeliani facendosi
esplodere sugli autobus, nei mercati, nei ristoranti, nelle
discoteche.
Celebrati come eroi dalla propaganda araba, beatificati in
contraddizione con la stessa dottrina coranica, spesso
rispettati come coraggiosi partigiani anche in Occidente,
questi martiri assassini non vanno certo all’assalto per
costruire uno Stato palestinese accanto allo Stato ebraico.
Al contrario, assumono la causa nazionale palestinese come
fondamento teologico di una guerra totale all’"empietà"
ebraica, cristiana, occidentale. In quanto figli
dell’occupazione militare israeliana, non possiamo
considerarli semplici emissari di Bin Laden, eppure ne
condividono le finalità totalitarie.
Mi stupisce dunque che una cristiana convertita all’Islam
come Suha Arafat, moglie del presidente dell’Anp,
rivendichi il terrorismo suicida come diritto legittimo di
un popolo sottoposto a occupazione. Interrogata dal giornale
saudita "al-Majalla" su come reagirebbe se suo
figlio commettesse un attentato suicida, risponde:
"C’è un onore più grande di quello di essere
martire?".
Così l’idea blasfema del sacrificio umano torna ad
affiorare dopo millenni, come se l’angelo inviato dal
Signore non avesse fermato la mano di Abramo sul monte
Moriah, un attimo prima che gli sacrificasse Isacco. E la
guerra stessa cambia natura, s’imbarbarisce.
Nei cunicoli del campo profughi di Jenin, i soldati hanno
dovuto rinunciare alla protezione dei carri armati, sono
caduti nell’agguato degli uomini-bomba e hanno inseguito
casa per casa i terroristi annidati fra la popolazione
civile, seminandovi la morte. Questa è la sporca guerra del
futuro, a meno di ricorrere ai bombardamenti indiscriminati
dall’alto.
Ecco perché mi sento di affermare che Israele ha bisogno
della nostra solidarietà, nonostante oggi appaia il più
forte. Ha bisogno della nostra solidarietà anche per
cambiare la sua politica.
Ricordo bene l’indignazione che provai, vent’anni fa,
per la strage di Sabra e Chatila perpetrata da falangisti
cristiani senza che l’esercito israeliano intervenisse per
fermarli. Insieme ad altri ebrei milanesi andai subito a
manifestare sotto le finestre del consolato israeliano da
cui mi osservava mia madre, disperata quanto me. Lo rifarei.
Allora il governo di Begin e Sharon invadeva il territorio
libanese e lo Stato ebraico non era direttamente in
pericolo. La classe dirigente israeliana si ostinava a
negare l’esistenza stessa di un popolo palestinese e i
suoi diritti nazionali. In tanti, dentro e fuori Israele, ci
battemmo per vincere quella posizione oltranzista,
manifestando al fianco dei palestinesi.
Oggi la situazione è molto diversa. I governi di
Gerusalemme hanno commesso molti altri errori, in nome di un
malinteso primato della sicurezza nazionale. Hanno
incoraggiato o tollerato gli insediamenti di coloni, hanno
boicottato la cooperazione economica con i palestinesi, li
hanno umiliati. E intanto i paesi arabi finanziavano e
armavano il fondamentalismo di cui lo stesso Arafat, maestro
di doppiezza, sarebbe finito ostaggio. Ma tutto ciò non
toglie che adesso Israele è davvero in pericolo e noi siamo
chiamati a farci carico del suo destino.
Per questo domani andrò a deporre il mio sassolino e a
recitare il mio kaddish per i morti davanti alla sinagoga di
Roma. Chiedendomi e ancora chiedendovi: perché Israele deve
vivere? Forse per me la risposta è più semplice: perché
è la terra in cui sono nati i miei genitori, i miei nonni,
i miei avi. Ma per voi? Non mi fiderei, non mi accontenterei
di una risposta legata al senso di colpa occidentale per lo
sterminio ebraico del secolo scorso: quello è
inevitabilmente destinato a scemare. Mi piacerebbe invece
che i cristiani dicessero: Israele mi riguarda, è parte di
me. Quando Giovanni Paolo II, sovvertendo secoli di dottrina
antigiudaica, ha solennemente riaffermato sul monte Sinai e
a Gerusalemme l’eterna validità dell’Alleanza stipulata
fra il popolo di Mosè e il Signore, assunta dai cristiani
stessi come profetico sigillo di fede, egli non ha fatto
altro che attribuire significato provvidenziale - non solo
storico - alle radici ebraiche del cristianesimo.
Per questo è lecito, certo, criticare la politica e le
scelte militari israeliane. Ma non è lecito farci male con
assurdi riferimenti allo sterminio e al genocidio. Quello
c’è stato, sì, ma nella nostra Europa, dove un’intera
civiltà è stata cancellata dopo secoli di antisemitismo
cristiano e pagano. Un massacro atroce di musulmani si è
consumato, in effetti, ancor più di recente, senza che
nessuno muovesse un dito. Ma non in Palestina, in Algeria:
oltre centomila morti per mano dei fondamentalisti islamici.
E ancora, ve ne prego, proibitevi ignobili allusioni alla
perfidia ebraica, che il beato papa Giovanni cancellò dal
vocabolario della liturgia. Non cadete nell’antica
tentazione del paternalismo: ma come, voi ebrei ci ripagate
così della nostra generosa tolleranza?
Gli israeliani, anche sbagliando, stanno lottando per la
loro sopravvivenza. Fargli sentire che vi sta a cuore, che
partecipate della loro sofferenza, non implica minimamente
venire meno alla solidarietà con i palestinesi. Al
contrario, significa trattarli da popolo adulto. Dire loro:
se volete dare vita a uno Stato, come è giusto, se volete
che vi sia restituita la vostra dignità calpestata,
ribellatevi all’infamia dei sacrifici umani. Gli shahid
non sono la bomba atomica dei poveri ma un nuovo simbolo
dell’oppressione cui il fondamentalismo islamico,
bestemmiando il Corano, vuole costringervi.
Voi che portate nel cuore la santità dei luoghi in cui
visse Gesù; voi che partecipate della sofferenza dei
palestinesi e - come me - avete manifestato al loro fianco;
fate sentire agli israeliani il legame indissolubile che vi
unisce allo Stato ebraico. Fate come il Papa che infilò
quel biglietto nella fessura del Muro del Pianto. Portate il
vostro sassolino davanti alla sinagoga, da soli o in corteo
silenzioso. Noi siamo abituati a deporlo sulle tombe dei
congiunti, a testimonianza della nostra visita, prima di
recitare il kaddish. Domani, in quel momento, io piangerò
anche i morti di Jenin.
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