Qui Elia Kopciovski, già rabbino capo di Milano, descrive in efficace sintesi il senso e le modalità fondamentali della preghiera ebraica. È su questo tronco che, pur con la sua originalità, è nata la preghiera dei cristiani; il lettore non avrà pertanto difficoltà a trovare molte ragioni di sintonia con questo capitolo essenziale della fede ebraica.
Il bisogno di vedere il mondo nella luce del suo Creatore è stata una delle prime necessità dell'uomo. Nella consapevolezza dello splendore del creato, dei miracoli che in esso si ripetono quotidianamente, del mistero del suo perpetuarsi, l'animo dell'uomo ha sentito la spinta ad elevarsi, a ricercare, a ringraziare e ad innalzare una lode a Colui che gli aveva permesso di far parte di questo miracolo. La preghiera fa sentire l'uomo partecipe del mistero: essa è «una finestra aperta sull'immensità di Dio», 1 quasi a invitarLo a intervenire nelle nostre vite, è una luce che si accende nell'animo e lo fa risplendere della luce divina. È l'umile, l'unica risposta possibile alle limitatezza dell'uomo di fronte alla gloria del Creatore; e contemporaneamente è l’umile richiesta a Dio di non dimenticare l'uomo che ha creato, di far sentire all'uomo stesso, in ogni momento, la Sua vicinanza e la Sua protezione. È il modo di iniziare con Dio non un monologo, ma un dialogo: perché dove c'è la preghiera c'è Dio. È, nello stesso tempo, l'accettazione totale della Sua volontà, per quanto imperscrutabile essa sia. Il culto dell'ebraismo è il primo nella storia ad essersi liberato dalle pratiche idolatriche e ad essere stato consacrato esclusivamente al servizio del Dio Uno ed Unico. Quando ancora il mondo, anche quello delle maggiori civiltà antiche e di cultura elevata, era immerso nel culto degli idoli, l'ebraismo seppe distaccarsi da qualsiasi pratica idolatrica, manifestando anche in questo modo la sua concezione superiore della Divinità. Fin dai tempi in cui il Tempio si ergeva maestoso sui sacri colli di Gerusalemme, quando ancora vigeva il culto sacrificale nel cuore di Israele, la preghiera veniva innalzata a Dio da ogni singolo orante. Non esistevano formulari liturgici fissi e l'ordine delle preghiere non era, quindi, rigorosamente stabilito; inoltre, non soltanto era permesso, ma anche encomiabile che ogni singolo officiante variasse la terminologia. Anche quando le preghiere trovarono la loro formulazione definitiva, quella che, grosso modo, è giunta fino a noi, esse non furono poste per iscritto; anzi, era severamente proibito dai nostri Maestri lo scriverle. Ciò evitava un irrigidimento delle formule, una meccanizzazione della preghiera, un appiattimento dell'elevazione spirituale che doveva, invece, rinnovarsi giorno per giorno, momento per momento, partendo dal cuore dell'individuo, per rendere la preghiera sempre più attuale più sentita. Fu solo dopo che la Diaspora mise in pericolo l'unità del popolo che cominciarono ad apparire i primi libri di preghiere che, tuttavia, erano delle guide più che veri e propri formulari liturgici. Le tefilloth (plurale di tefillah} stesse erano molto più semplici, scritte in forma scorrevole, quasi ingenua. Col passar del tempo il formulario liturgico si ampliò sia per il mutare dello stile sia per influenze esterne sia, infine, anche per i vari inserimenti che, quasi insensibilmente, vennero compiuti dagli stessi officianti e dai vari partecipanti alle funzioni. Furono aggiunti brani poetici, citazioni dalla Bibbia, ornamenti stilistici vari che hanno contribuito a rendere l'odierno formulario assai più vasto di quello originario. L'aggiunta soprattutto di brani poetici dovuta ad autori di vari luoghi in cui gli ebrei erano dispersi, costituisce una delle ragioni principali delle differenze fra i vari minhaghim (riti) seguiti dalle varie comunità ebraiche in paesi differenti. Da notare infine che nelle tefilloth quotidiane non vengono espresse soltanto le credenze religiose, ma anche rievocati gli avvenimenti, le vicissitudini, le speranze del popolo ebraico. Esse perciò riflettono sia ideali etico-religiosi dell'ebraismo, sia la vita dell'ebreo come individuo e come membro di un popolo che ha sofferto e che è stato disperso fra tutte le nazioni del mondo per duemila anni. A causa dell'intensa coscienza di gruppo del popolo ebraico, la maggior parte delle tefilloth sono espresse alla prima persona plurale: è affermato infatti nel Talmud (Sanhedrin 27b) «Tutti i figli di Israele sono responsabili l'uno per l'altro»; e ciò spiega anche il fatto che molte preghiere, tratte da versi e brani biblici, sono espressi al plurale anche ove, nella versione originale, erano al singolare. Un'altra caratteristica notevole della preghiera ebraica è che essa inizia molto frequentemente con l'espressione: «Sia la volontà del Signore che...». In questo modo viene messo in rilievo che colui che supplica, sottomette la sua richiesta alla volontà di Dio, lasciando la risposta alla sapienza e alla benevolenza del Signore e accettando con la medesima fede non solo la concessione alla richiesta, ma anche il suo rifiuto. Si evita così di confondere la preghiera con una formula magica espressa all'unico scopo di ottenere quanto desiderato. Dopo la distruzione del primo Tempio (586 a E.V.) fu creata dagli esuli in Babilonia un'istituzione di tipo nuovo: la Sinagoga che, come dice il termine stesso di derivazione greca, era un «luogo di riunione» destinato anche, se non esclusivamente, all'adempimento del dovere di prestar culto al Signore. La Sinagoga, che in origine era stata un sostituto del Tempio, nel corso dei secoli venne a rappresentare agli occhi degli ebrei, il «Santuario trasportabile» della loro religione, come si espresse con particolare efficacia R.Travers Herford. 2 Fu nella Sinagoga che nacque la prima forma della liturgia ebraica staccatasi dal culto nel Tempio, ma che ad esso, comunque, si riallacciava. In quell'occasione i nostri Maestri dimostrarono sapienza, sensibilità e, direi, persino preveggenza, stabilendo che le ore precedentemente dedicate al culto sacrificale fossero dedicate alla preghiera. Infatti in tal modo trasformarono la liturgia più antica in un'istituzione per le masse: il bisogno di preghiera del singolo divenne così un obbligo morale che, fondandosi su motivi religiosi di culto, impegna il popolo ebraico a ritrovarsi, a riavvicinarsi ai loro fratelli nell'atmosfera di santità della Sinagoga. In particolare ciò è vero per quel che riguarda le funzioni sabbatiche e le ricorrenze festive, quando ogni singolo ebreo, libero dal lavoro e dalle preoccupazioni giornaliere, può dedicare tutto se stesso ad elevare i propri sentimenti, a raffinare le proprie inclinazioni in un ambiente pieno di santità, di sentimento, di pensiero. Lo scopo nazionale e spirituale della preghiera collettiva ha trovato la sua espressione più alta nell'obbligo di recitare alcune parti più importanti della preghiera, alla presenza di un minyan (cioè di almeno dieci uomini che abbiano superato i tredici anni). Sembra quasi che l'ebreo abbia il terrore dell'isolamento: «II Signore è uno e il popolo di Israele è uno». 3 Ma null'altro può essere unico e separato. Quindi anche il singolo, indirettamente, non può sopravvivere, per lo meno come ebreo, se non partecipa alla vita comunitaria. È una verità che il popolo ebraico ha rilevato e sperimentato più di ogni altro popolo. E questa concezione della vita e del mondo risulta chiara in qualsiasi punto della tefillah quotidiana. La Sinagoga e la preghiera collettiva alla presenza del minyan preservarono l'essenza dell'ebraismo, il legame tra i vari componenti del popolo sparsi ai quattro angoli della terra, permise che il patrimonio culturale, oltre che cultuale, ebraico non andasse perduto nelle difficoltà della vita quotidiana. Grande è stata, attraverso i tempi, e soprattutto nella Diaspora, l'importanza di queste disposizioni per osservare le quali l'ebreo è tenuto a scegliere come luogo di residenza una località in cui vivano altri ebrei; ciò ha impedito l'eccessiva dispersione e la perdita di contatto con i suoi correligionari. È anche da sottolineare il fatto che i nostri Maestri stabilendo, sia pure per necessità, una forma di preghiera scritta, misero su un piano di perfetta uguaglianza tutte le classi sociali del popolo permettendo anche all'uomo più semplice espressioni che altrimenti forse non sarebbe stato in grado di concepire. La preghiera durante la giornata Abbiamo visto che dalla Magna Congregazione furono fissate anche determinate ore del giorno per le funzioni religiose, ricollegando la recitazione delle tre tefilloth al culto che vigeva nel Tempio di Gerusalemme. Un'antica tradizione, tuttavia, afferma che le tre tefilloth quotidiane furono stabilite già dai Patriarchi e che Ezrà e i membri della Magna Congregazione, confermando la pratica in uso fin dalla nascita del popolo, misero in risalto che la distruzione del Tempio non aveva interrotto la continuità del culto tradizionale. La recitazione, comunque, viene fatta alla sera (tefillah di 'arvith), al mattino (tefillah di shachrith) e nelle prime ore del pomeriggio (tefillah di minchà). Di sabato e nei giorni festivi dopo shachrith viene recitata una quarta tefillah, quella di musaf. Il giorno di Kippur (dell'espiazione), infine, si conclude con una quinta tefillah, quella di neilah (preghiera di chiusura). La ragione per cui per la recitazione delle tre tefilloth dei giorni feriali siano stati fissati determinati momenti della giornata, ha suggerito ai nostri Maestri alcune spiegazioni di profondo significato mistico e morale. Dalla preghiera l'uomo riceve forza, incoraggiamento, sprone; attraverso di essa si sente purificato dalle necessità materiali della vita quotidiana. Questo concetto è stato espresso con un paragone molto appropriato da Rabbì Yehuda Ha-Levì (1075? - 1141) che scrive: «La consuetudine di recitare regolarmente la tefillah è per l'anima quello che l'alimentazione è per il corpo; l'uomo prega per la propria anima e si nutre per il proprio corpo e come si mantiene l'effetto del pasto del giorno fino a che non si rifocilla di nuovo, così si mantiene su di lui la benedizione della tefillah fino al tempo di un'altra tefillah, e quanto più si allontana il tempo della tefillah dall'anima tanto più essa diventa oscura». 4 Il Talmud Yerushalmì rispondendo alla domanda: «Da dove abbiamo imparato che bisogna recitare tre tefilloth ogni giorno?», afferma in modo estremamente conciso ed incisivo; «Esse sono in corrispondenza delle tre volte che il giorno si muta per le creature». 5 Molto particolareggiata e suggestiva è la spiegazione che dà il Maharal di Praga (1525-1609): «È scritto nello Shema’, il credo dell'ebraismo: “E amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue possibilità”. Ebbene la tefillah del mattino è quella che si recita quando, dopo il sonno, l'anima, la coscienza, tornano a rendere l'uomo responsabile delle proprie azioni. Non vi è cosa meno spirituale dell'uomo che dorme nel quale l'anima non è affatto attiva; l'uomo quindi deve alzarsi dal suo sonno, particolarmente piacevole al mattino, e pregare: così sottomette il suo corpo alla volontà del Signore Benedetto. La preghiera delle prime ore del pomeriggio richiede l'interruzione dal lavoro proprio nel momento in cui esso diviene più utile e produttivo; l'uomo dimostra così che ama Dio con tutte le proprie possibilità, sottomettendo, cioè, i beni materiali all'amore per Dio. E infine la sera, quando l'uomo è già stanco per il lavoro e per le preoccupazioni della giornata e il suo cuore cerca al fine il riposo, nuovamente egli sottomette la propria anima al Signore e prega». 6 Rabbì Isaiah Horowit (1565? - 1630), infine, trova nei tre tempi fissati per la tefillah un parallelo con i tre periodi in cui si può dividere la vita dell'uomo: «E dato che la vita dell'uomo è simile a una parabola, ascendente in gioventù, stabile nella maturità, discendente nella vecchiaia, i nostri Maestri hanno stabilito tre tefilloth, per insegnare che l'Eterno, benedetto sia, soddisfa tutte le nostre esigenze in questi tre periodi della nostra vita e che senza il Suo aiuto non ci è possibile mantenerci neanche un solo momento». 7 Non si può parlare di tefilloth senza soffermarsi brevemente sulle preghiere principali, quelle che danno un significato e un valore particolare al nostro dialogo con l'Eterno. Le parti fondamentali della liturgia ebraica sono lo Shema' e lo Shemonè 'esrè o'Amidah. Lo Shema’ non è propriamente una preghiera, almeno nel senso etimologico della parola. È, piuttosto, una dichiarazione di fede, un impegno di fedeltà e di obbedienza ad un solo ed unico Dio, un'affermazione del proprio ebraismo. Fin dalla più tenera infanzia i bambini cominciano a balbettare le sue prime parole: «Ascolta, o Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è unico!». E sono queste le parole che pronuncia il morituro negli ultimi istanti della sua vita. Queste parole racchiudono il più grande contributo dell'ebraismo al pensiero religioso dell'umanità, costituiscono la prima professione di fede dell'ebreo che ripete come il Dio, servito, venerato e proclamato da Israele è Uno ed Unico: Egli soltanto è Dio che fu, è e sarà eternamente. Lo Shema' è composto da tre brani tratti dal Pentateuco. 8 Durante la sua recitazione vengono ricordate e sottolineate alcune delle regole fondamentali della vita dell'ebreo: la vita non è un occasionale e saltuario incontro con Dio, ma un vivere ogni momento della propria esistenza con Lui. Lo Shemonè 'esrè o 'Amidah (che significa «stare in piedi»), costituisce la vera e propria preghiera. Come abbiamo detto, deve essere recitato stando in piedi e l'orante deve recitarla rivolto verso Gerusalemme, ove sorgeva il Tempio. Tre volte al giorno si realizza così una mistica unione non solo con il Signore, ma con tutto il popolo che si rivolge contemporaneamente verso il medesimo luogo, pregando nel medesimo modo e sentendosi, pur se diviso e separato, pur se isolato e perseguitato, forte nella sua unione con tutti i suoi fratelli. La 'amidah è composta di diciannove benedizioni; poiché però, quando fu istituita come preghiera obbligatoria, conteneva soltanto diciotto benedizioni, è nota anche col nome di Shemonè 'esrè, che significa, appunto, diciotto. La struttura della 'amidah segue una linea logica: le tre prime benedizioni sono di lode al Signore «grande, potente, venerato», che provvede ad ogni nostra necessità. Nella seconda di queste benedizioni di lode è celebrato il Signore che «fa rivivere i morti». La resurrezione dei morti costituisce infatti uno dei cardini fondamentali dell'ebraismo. Le tre benedizioni finali, cioè l'ultima parte della 'amidah, sono un fervido ringraziamento al Signore per tutti i miracoli che compie «ogni giorno, ogni momento, sera, mattina e pomeriggio» nell'universo da Lui creato; e non solo per i miracoli evidenti, palesi, ma anche per quelli (e sono i più numerosi!) di cui non ci rendiamo conto. La parte centrale della 'amidah è la vera e propria preghiera: in essa rivolgiamo a Dio le nostre richieste, ed è interessante notare come tali richieste, come d'altronde abbiamo già avuto occasione di dire, non vengano mai rivolte a titolo personale, ma sempre a favore di tutto il popolo. Vi sono richieste di carattere spirituale: «Benedetto Tu, o Signore, che hai concesso all'uomo l'intelligenza, il discernimento», la possibilità quindi di scegliere tra il bene e il male; la richiesta del perdono di Dio e quella in cui si implora il Suo aiuto per pentirci. Altre richieste sono di carattere fisico e materiale, ad esempio la salute e la fertilità dei campi. Infine vi sono richieste di carattere nazionale: «Riuniscici dai quattro angoli della terra e fa' sì che possiamo tornare nella nostra terra!», e messianico: «Fa' germogliare la stirpe di Davide, Tuo servo [...]». Nella terza ed ultima parte della 'amidah si inserisce la Bircath Cohanim, la Benedizione sacerdotale, che consiste di tre brevi versi dei Numeri (6,24-26). La Bircath Cohanim è la benedizione che, per ordine del Signore stesso, i cohanim, i Sacerdoti discenenti di Aharon fratello di Mosè, sono tenuti a impartire al popolo con amore, come è sottolineato nella formula che essi recitano prima di accingersi ad implorare la grazia divina sul popolo: «Benedetto Tu, o Signore [...] che ci comandasti di benedire il Tuo popolo con amore!». È un momento solenne quello in cui il Cohen, con il capo coperto dal talleth (manto di preghiera), si volge verso il pubblico per abbracciare nella benedizione tutti i presenti e, simbolicamente, tutti i membri del popolo in qualunque luogo essi si trovino. Contemporaneamente i padri coprono con il loro talleth il capo dei figli, riunendo simbolicamente tutta la famiglia nella benedizione. È un momento di grande commozione e di profonda riflessione: la benedizione non ha in sé nulla di taumaturgico. Particolarmente intenso è il sentimento di devozione che si eleva verso Dio, la presa di coscienza della propria umiltà, ma anche delle immense possibilità che Dio ha trasmesso in noi: la coscienza che solo noi, con il nostro comportamento, con il nostro modo di vivere con noi stessi e con gli altri, siamo apportatori, con la benedizione di Dio, del bene e della serenità. Occorre infine accennare al Kaddish, brano che viene ripetuto più volte durante la funzione. Il Kaddish è probabilmente, dopo lo Shema’, la parte della liturgia ebraica più conosciuta, forse perché viene recitata anche dalle persone in lutto ogni volta che si celebra un anniversario funebre. La sua origine fu tuttavia assai differente e anche oggi, come ho detto, viene recitato più volte nel corso dell'officiatura. La parte fondamentale del Kaddish, quella da cui si è poi sviluppato questo inno di lode, è costituita da una breve formula di benedizione: «Sia il Suo eccelso nome benedetto per sempre, nell'eternità». Questa formula, che si basa su un verso di Daniele (2,20), il quale ricalca a sua volta un verso dei Salmi (113,2), veniva probabilmente recitato come risposta del pubblico all'invito dell'offìciante di benedire il Signore.La ragione della recitazione del Kaddish da parte di coloro che sono in lutto è dovuta ad una profonda fede nella giustizia e nell'onnipotenza della Maestà Divina. Ben triste è la dipartita da questo mondo delle persone care per coloro che rimangono! È duro accettare la triste realtà e talvolta la rassegnazione sembrerebbe impossibile se non fosse così radicata in noi la fede nell'Essere Supremo che,Unico, vede e conosce la ragione delle proprie azioni. Ed ecco che il vero ebreo anche, e soprattutto, nel momento del lutto e del dolore, china il capo e recita: «Sia magnificato e santificato il Suo nome eccelso!». Dio è grande e giusto sempre: nella vita e nella morte! Santificare pubblicamente il nome di Dio è stato lo storico dovere dell'ebreo. Testimoniare coraggiosamente la fede nella Sua esistenza e nella Sua sovranità è, da sempre la missione dell'ebraismo. ____________________ (Pubblicato da: La Rivista del Clero, Sett. 1989) Elia Kopciowski,
già Rabbino capo della comunità ebraica di Milano, è stato
presidente del Centro di documentazione ebraica contemporanea e
presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia. 1. A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla 2. R. Travers Herford, I Farisei, Laterza, Bari 1925. 3. Dalla preghiera pomeridiana. 4. Il re dei Kazari, III discorso, 5. 5. Trattato Berachoth IV, 1. 6. Scritti scelti del 0Maharal di Praga (in ebraico), Ed. Mossad Rav Kook, Gerusalemme 1960. 7. «Le due Tavole della Legge»: trattato Tamid. 8. Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,37-41. | home | | inizio pagina
| |