Universalismo ebraico cristiano e prospettive di dialogo
a partire da Gerusalemme
Elena Lea Bartolini, Università Gregoriana 26 settembre 2005

Nell’orizzonte del rapporto fra i discendenti di Abramo e le Nazioni che, secondo la tradizione rabbinica, prevede l’accoglienza della rivelazione sinaitica (Torah) in prospettiva “duale” (ebraismo e noachismo), è possibile cogliere significative opportunità di dialogo e di impegno comune fra ebrei e cristiani chiamati a testimoniare la salvezza del Dio dell’Alleanza secondo i diversi doni ricevuti: “un’elezione mai revocata” e “l’innesto sull’olivo buono” (Rm 9-11).
 

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Nell’orizzonte del rapporto fra i discendenti di Abramo e le Nazioni che, secondo la tradizione rabbinica, prevede l’accoglienza della rivelazione sinaitica (Torah) in prospettiva “duale” (ebraismo e noachismo), è possibile cogliere significative opportunità di dialogo e di impegno comune fra ebrei e cristiani chiamati a testimoniare la salvezza del Dio dell’Alleanza secondo i diversi doni ricevuti: “un’elezione mai revocata” e “l’innesto sull’olivo buono” (Rm 9-11). È in tale prospettiva che la Chiesa giudaico-cristiana delle origini, durante il Concilio di Gerusalemme, ha deciso di fare propria la proposta di Giacomo (At 15,1ss.), ed è anche secondo questa dinamica che può essere interpretata la “dualità” insita nel nome ebraico della Città Santa: Jerushalajim, dalla quale, secondo la profezia di Isaia, dovranno “uscire” la Torah e la “Parola del Signore” per tutti i popoli (Is 2,3).
Si tratta di riscoprire una prospettiva universale che, attraverso momenti ed eventi particolari, si apre al dialogo rispettando la diversità, attuando quell’orizzonte di “benedizione” per “ogni famiglia della terra” (Gen 12,1-3) nel segno di un rapporto che non “assimila” a sé ma accoglie il dono dell’altro, nel comune impegno affinché si compia la salvezza nel “mondo di Dio”.

Il rapporto fra “Israele e le genti” nella tradizione rabbinica (coordinate generali)

Il rapporto fra particolarità ebraica e universalismo della salvezza per “tutte le genti” lo ritroviamo nella Scrittura già a partire dalla chiamata di Abramo (Gen 12,1-4a): Dio infatti, dopo averlo invitato a partire rimettendo in discussione i suoi progetti, e dopo avergli promesso una serie di cose che riguardano il popolo che da lui discenderà attraverso Isacco, gli dice: “...in te si benediranno tutte le famiglie della terra...(Gen 12,3)”.

In questo passo biblico che testimonia la chiamata e l’elezione divina del primo patriarca, che è anche il primo ebreo, troviamo due elementi linguistici particolarmente interessanti: i due imperativi “va per te” e “sii benedizione” messi in relazione ad un orizzonte che comprende “tutte le famiglie della terra”. Se consideriamo l’originale ebraico e il modo in cui la Tradizione lo ha commentato possiamo cogliere importanti sottolineature. Innanzitutto la singolare costruzione “va per te” (in ebraico lekh-lekha) traducibile anche come “va verso di te”, che nel Pentateuco compare solo due volte: nella chiamata di Abramo (Gen 12,1) e nella prova a cui Dio lo sottopone quando gli chiede il sacrificio di Isacco che non verrà compiuto (Gen 22,2). La Tradizione rabbinica sottolinea che l’andare di Abramo non va considerato solo in riferimento a ciò che sta lasciando, tanto più che, in quanto nomade, ha già comunque deciso di partire, ma va compreso come una esortazione divina a rimettere in discussione le proprie scelte per scoprire la profondità della propria vocazione, per questo gli viene detto “va per te/va verso di te”, che Rav Elia Kopciowski – autorevole protagonista italiano nel dialogo cristiano ebraico – commentava come segue:

Va per te, va nel tuo interesse! E, siccome il tuo interesse dovrà essere l’interesse dell’umanità perché dovrai essere padre di moltitudini […], sarai una benedizione per le famiglie della terra. Questo è il tuo dovere.

Abramo è chiamato a scoprire la sua particolare vocazione, che è poi quella del popolo di Israele, in stretta connessione ad un rapporto di benedizione universale: “in te si benediranno tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). Anche in questo in caso la particolare configurazione passivo-riflessiva del verbo benedire (in ebraico nivrekhu vekha), piuttosto insolita e rara e traducibile anche come “in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”, permette di interpretare il rapporto di benedizione fra la discendenza di Abramo e l’umanità come una possibilità che si offre ad ogni uomo e in ogni tempo nell’orizzonte di un rapporto: ci si deve “benedire” in Abramo, nel suo popolo, non è chiesto che ci assimili a lui diventando tutti ebrei. Siamo di fronte ad un principio di relazione nella distinzione tipicamente biblico, il quale sottintende la possibilità di cammini diversificati verso una prospettiva comune di salvezza strettamente connessa all’elezione di Dio nei confronti del suo popolo Israele, la cui dinamica è rilevabile in alcuni passi dell’Esodo.

Nel capitolo diciannovesimo, dopo l’uscita dall’Egitto e nel contesto della preparazione alla teofania sinaitica, il Signore attraverso Mosè dice agli Israeliti: “se ascolterete la mia voce e custodirete il mio patto (osservando i precetti), sarete per Me un tesoro fra tutti i popoli, poiché a Me appartiene tutta la terra. Sarete per Me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,5-6). Queste parole esprimono contemporaneamente la dimensione dell’elezione divina che distingue il popolo di Israele dagli altri popoli e il particolare compito che tale elezione implica: più che un privilegio è l’invito ad un servizio impegnativo nel segno della santità.

Perché ciò si realizzi è necessario un impegno dichiarato che, di fatto, troviamo al capitolo ventiquattresimo quando il popolo, dopo aver ascoltato ciò che Dio ha rivelato a Mosè sul Sinai, dichiara solennemente: “tutto ciò che il Signore ha detto lo eseguiremo e lo ascolteremo” (Es 24,7). “Lo eseguiremo”, in quanto è l’insegnamento di Colui che ha liberato dall’Egitto e quindi vuole il bene del suo popolo, e “lo ascolteremo” poiché eseguendo i precetti ne comprenderemo il significato: è accogliendo gli insegnamenti della Torah che Israele diventa il popolo di Dio e comprende lo scopo per cui è stato tratto dalla schiavitù alla libertà . Come si può notare nella logica biblica la concettualizzazione segue sempre un’esperienza, non la precede, in quanto la verità viene colta come il culmine di un percorso esperienziale e non un suo presupposto come invece accade nella cultura occidentale.

Israele pertanto scopre la sua vocazione ad essere il popolo sacerdotale di Dio nel contesto della sua liberazione, ed impara a diventare tale attraverso l’esperienza del deserto, alla luce di una rivelazione che si impegna ad accogliere per camminare “custodendo” il patto che lo lega al Suo Dio, per diventare “nazione santa” (cfr. Lv 19,2), per essere luce per le Nazioni chiamate a “benedirsi” in Abramo e nei suoi discendenti.
Elezione dunque come impegno e responsabilità nei confronti di un progetto divino affidato ad un particolare popolo in prospettiva universale.

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La rivelazione “duale” della Torah al Sinai e la sua prospettiva universale secondo il midrash rabbinico

Per comprendere meglio questo aspetto, possiamo prendere in considerazione i commenti rabbinici relativi alla teofania sinaitica (cfr. Es 19-20) durante la quale viene donata la Torah, l’insegnamento divino rivelato attraverso Mosè, impropriamente e discutibilmente tradotto in italiano con il termine “Legge” che ne impoverisce la ricchezza e la profondità di senso.

Un’antica tradizione interpretativa sottolinea che la Torah è stata donata da Dio in modo che tutti la potessero accogliere e comprendere “vedendo” la grandezza della Sua voce, eccone uno dei passi più significativi:

“Tutto il popolo vedeva le voci” (Es 20,18).

Perché le “voci”? perché la voce del Signore si trasformava in sette suoni e da questi nelle settanta lingue, affinché tutti i popoli potessero comprendere .

Il numero settanta, nella Scrittura, è un numero simbolico che indica universalità, e per questo permette di esprimere l’idea che la Rivelazione di Dio sia stata data in modo da poter essere compresa da tutti i popoli. L’evangelista Luca, autore degli Atti degli apostoli, molto probabilmente si è rifatto a questo commento della Tradizione rabbinica nella stesura della narrazione relativa alla Pentecoste cristiana che, come lui stesso sottolinea, avviene nello stesso giorno della Pentecoste ebraica (o festa delle Settimane, in ebraico Shavu‘ot) in cui si celebra la memoria del dono della Torah al Sinai (cfr. At 2,1-11) , ricorrenza nella quale, non a caso, si legge il Libro di Ruth: la Moabita (non ebrea) che nel rapporto con la suocera ebrea Noemi incontra il Dio di Israele e gli rimane fedele.

Secondo la Tradizione ebraica, la Rivelazione sinaitica sarebbe stata dunque data in maniera che fosse comprensibile per tutti, e non solo per il popolo di Israele; tuttavia, coerentemente con la logica della distinzione biblica già menzionata, sarebbe stata data in duplice forma affinché fosse rispettata sia la particolare vocazione dei discendenti di Abramo attraverso Isacco che quella di tutti gli altri popoli. In particolare, le due forme dell’unica Torah sarebbero le seguenti: 613 precetti per gli ebrei e 7 precetti per i non ebrei che desiderano partecipare alla salvezza del Dio di Israele. I 613 precetti per gli ebrei costituiscono ciò che normalmente si definisce come halakhah, cioè prassi religiosa codificata che trova il suo fondamento sia nella Scrittura che nella Tradizione, la quale abbraccia ogni aspetto della vita e si traduce in norme piuttosto minuziose e precise; i 7 precetti per i non ebrei sono invece definiti come “i precetti di Noè” o noachidi, in quanto sarebbero stati dati da Dio a Noè dopo il diluvio (cfr. Gen 8,21-9,17) e, nella loro rielaborazione rabbinica, costituiscono una sorta di minimum di obblighi religiosi ai quali i “giusti come Noè” (che non è ebreo) presenti in ogni Nazione possono attenersi per camminare con Israele. Tutto ciò costituisce un “segno di salvezza” che si irradia positivamente fra i popoli, come ben sottolineato da Elia Benamozegh, rabbino a Livorno nella seconda metà del 1800 e autore di un importante saggio sui rapporti fra Israele e l’umanità, ecco cosa scrive nel medesimo:

Il vero spirito dell’ebraismo si manifesta chiaramente quando proclama che esistono, tra i gentili, uomini giusti amati da Dio, i cui meriti fanno la prosperità delle Nazioni. Non è soltanto Giobbe che i dottori citano come il giusto per eccellenza.

I “giusti fra le Nazioni”, chiamati anche “timorati di Dio” (li menziona anche Luca, cfr. At 2,11 e 10,2), sono quindi coloro che insieme al popolo di Israele testimoniano l’orizzonte universale della salvezza rivelata nella Scrittura secondo un insegnamento divino in forma duale.

Dei sette precetti noachidi, considerati come una sorta di valori fondamentali per lo statuto dell’umanità, esistono varie versioni; quella ritenuta più antica è contenuta nel Talmud Babilonese, opera autorevole dal punto di vista normativo , che li elenca come segue:

I nostri dottori hanno detto che sette comandamenti sono stati imposti ai figli di Noè: il primo prescrive loro di istituire magistrati; gli altri sei proibiscono:
1) il sacrilegio; 2) il politeismo; 3) l’incesto; 4) l’omicidio; 5) il furto; 6) l’uso delle membra di un animale vivo.

La scelta del numero sette è chiaramente simbolica: sette sono i giorni della creazione, e per questo nella letteratura biblica il sette esprime pienezza, inoltre è in stretta connessione con il multiplo settanta che, come abbiamo visto, indica universalismo.
Se analizziamo poi i singoli precetti, ci accorgiamo che il primo prescrive l’istituzione di magistrati, lasciando così intendere l’importanza sia di un confronto autorevole circa la loro applicazione che di una garanzia affinché possano costituire un diritto per tutti. Ciò che poi viene vietato non è estraneo agli insegnamenti di altri grandi religioni o di ciò che potremmo definire principi alla base dei diritti umani, questo almeno per quanto riguarda il sacrilegio, l’incesto, l’omicidio, il furto. Il divieto di praticare il politeismo è invece più specifico e in stretta relazione con il monoteismo ebraico.

Quello che potremmo infine definire il divieto più originale e interessante è sicuramente la proibizione di cibarsi di membra di animali vivi: che senso ha dal momento che i medesimi devono comunque costituire parte del suo sostentamento? Di fatto viene qui riproposta in chiave universale una norma ebraica relativa alla macellazione rituale: la stessa deve infatti avvenire velocemente e con strumenti che evitino il più possibile la sofferenza all’animale. L’idea di fondo è che la naturale “catena alimentare” non implica necessariamente violenza nei confronti degli esseri viventi. Tale norma particolare si inquadra pertanto in quella più generale del rispetto della vita nelle sue varie forme e, se debitamente attualizzata, può dire molto anche oggi relativamente al rispetto del nostro pianeta.

Questa serie di precetti è stata successivamente rielaborata, ricompresa e ridiscussa. Ciò che conta comunque è l’intuizione originaria: la rivelazione della Torah è per tutti ma in forme diverse – fondamentalmente due – che comunque portano alla stessa meta, cioè al bene dell’umanità e del creato che è il “mondo di Dio”.

È opportuno a questo proposito precisare che la diversità numerica (613 per gli ebrei e solo 7 per i non ebrei), non va assolutamente interpretata nel senso di una maggiore importanza o di una superiore santità del popolo di Israele rispetto agli altri popoli, ma va piuttosto intesa in ordine ad una diversità di vocazione che appartiene ad un mistero imperscrutabile in quanto dono divino. Non va inoltre dimenticato che il non ebreo, se lo desidera, può osservare anche altri precetti, oltre a quelli noachidi, facendo riferimento a ciò che la Torah prescrive e, di fatto, ciascuno dei 7 setti precetti di Noè rappresenta un importante ambito legislativo che in epoche diverse ha dato origine ad articolazioni sempre più elaborate rispetto all’elenco originario.

Dualità di vie quindi secondo una logica che non legge in concorrenza Israele e i popoli, ma che li considera in reciproco rapporto di benedizione affinché la salvezza possa pienamente realizzarsi nella storia dell’umanità. Ecco perché l’ebraismo, tranne che in circostanze storiche particolari, ha preferito evitare il proselitismo: la salvezza del Dio di Israele (che è lo stesso Dio che si è rivelato ai cristiani) si può raggiungere per vie diverse riconducibili alla duplice forma della Rivelazione sinaitica.

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Dal Sinai a Tzion/Sion come realizzazione della “benedizione” in Abramo per “tutte le genti”: la vocazione “duale” di Gerusalemme

La dualità che caratterizza la rivelazione sinaitica ha un suo possibile e significativo riferimento simbolico sia nel nome ebraico di Gerusalemme, la Città santa, che in quello di Dio così come compare nel testo masoretico.

Gerusalemme, in ebraico Jerushalajim, è un nome composto da due termini. Il primo è Jeru, che in ebraico – per assonanza – assomiglia a jir’eh (provvederà), e che la Tradizione rabbinica interpreta nel senso di “visione provvidente di Dio” in relazione al sacrificio non compiuto di Isacco, la sua “legatura”, con cui Abramo è stato messo alla prova (Gen 22,1ss.). Il secondo è shalajim, che comprende la radice di shalom (pace, completezza, benessere), e rimanda all’antica Salem il cui re-sacerdote Malkitzedeq benedice Abramo in nome del “Dio Altissimo” (Gen 14, 18-20), segno quindi dell’esistenza di una città canaea abitata da gentili che servono Dio e che entrano in relazione positiva con il suo popolo. Il nome di Gerusalemme è pertanto connesso sia alla vocazione di Abramo che ad un significativo incontro con le genti.

Inoltre, nel suo insieme, Jerushalajim presenta insolitamente una desinenza duale (ajim): al di là delle possibili spiegazioni filologiche e storico-critiche, è possibile leggere questa dualità anche in relazione alla duplice Torah donata al Sinai che, proprio dal Monte Tzion/Sion ove Gerusalemme sorge, secondo la profezia di Isaia deve far luce a tutte le genti:

Verranno [sul Monte Tzion/Sion] molti popoli e diranno:
“Venite, saliamo sul monte del Signore,
al Tempio del Dio di Giacobbe,
perché ci indichi le Sue vie
e possiamo camminare per i Suoi sentieri”.
Perché da Tzion/Sion uscirà la Torah
E da Gerusalemme [Jerushalajim] la parola del Signore.
(Is 2,3)

Il Signore di cui si parla nella Scrittura è indicato prevalentemente con due nomi: , il Nome proprio con cui Dio si rivela ad Israele e che – per rispetto verso la Sua trascendenza – non viene mai pronunciato, ed ‘Elohim che – a differenza del precedente – designa più genericamente la realtà divina ed è espresso con una desinenza plurale (im) che può essere intesa in rapporto ad una possibile pluralità di ricezione sul versante non ebraico. Ecco allora che l’unico Dio della Rivelazione biblica si manifesta al plurale secondo la stessa logica duale con cui è stata donata la Torah nell’orizzonte del rapporto fra il popolo di Israele e gli altri popoli.

Non stupisce allora che la struttura della liturgia ebraica sia fondamentalmente aperta ai non ebrei e che, in tutte le grandi feste, l’ebreo abbia la coscienza di rappresentare davanti a Dio tutta l’umanità, nel senso che sa di dover compiere determinati gesti celebrativi non solo per sé ma per il bene di tutti in quanto la salvezza deve essere offerta ad ogni uomo.

Siamo dunque nel contesto di un “universale” che può essere detto e vissuto in modi diversi, e che si manifesta attraverso particolari chiamati ad entrare in positiva relazione proprio a partire dalle singole diversità, comprese come dono divino e non come problema.

Ben si comprende allora sia la portata che la profondità della profezia, e in particolare di quella di Isaia, che non ha mai smesso di sottolineare la prospettiva universale della salvezza di individuando una sua particolare connessione con la vocazione di Gerusalemme, la Città Santa, chiamata ad offrire una “casa di preghiera” per tutti i popoli.

Fra i passi biblici più significativi, possiamo ricordare alcune parole della preghiera di Salomone pronunziata nel momento in cui il Signore ha preso possesso del Tempio:

Anche lo straniero che non appartiene a Israele Tuo popolo, se viene da un paese lontano a causa del Tuo Nome perché si sarà sentito parlare del Tuo grande Nome, della Tua mano potente e del Tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo Tempio, Tu ascoltalo dal cielo, luogo della Tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il Tuo Nome, Ti temano come Israele tuo popolo e sappiano che al Tuo Nome è stato dedicato questo Tempio che io ho costruito (1 Re 8,41,ss.).

Nei libri dei profeti Isaia e Geremia troviamo parole ancora più esplicite:

Il Mio Tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli (Is 56,7);

Cammineranno i popoli alla tua luce [di Gerusalemme]
i re allo splendore del tuo sorgere (Is 60,3);

In quel tempo chiameranno Gerusalemme trono di JHWH; tutti i popoli vi si raduneranno nel Nome di e non seguiranno più la caparbietà del loro cuore malvagio (Ger 3,17).

Le metafore profetiche cercano inoltre di mostrare come la perenne presenza divina in Tzion/Sion renderà Gerusalemme luogo per eccellenza della realizzazione dei tempi messianici, che vengono paragonati ad un grande banchetto segno di profonda comunione fra Dio e gli uomini (Is 25,6-9), poiché è in questo luogo che Israele e i popoli possono incontrare insieme l’unico Signore della storia.

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Le scelte del Concilio di Gerusalemme (At 15,1ss.) nell’orizzonte del rapporto “Israele-genti”

Su questa linea di “dualità” che caratterizza il rapporto fra il popolo di Israele e le Nazioni, è possibile interpretare la decisione presa al Concilio di Gerusalemme dalla prima comunità giudaico-cristiana nel contesto della discussione relativa all’obbligo della circoncisione e dell’osservanza della Torah per i battezzati di origine non ebraica: si accoglie la proposta di Giacomo che ribadisce la necessità di differenziare la prassi per i cristiani di origine pagana, ai quali viene chiesto di limitarsi all’osservanza solo di poche prescrizioni che possono essere considerate una formulazione sintetica dei precetti di Noè (cfr. At 15,1ss.) . Una scelta quindi in linea con la tradizionale visione ebraica dei rapporti fra ebrei e non ebrei, sottolineata dalle parole: “Mosè infatti (cioè la Torah e la sua comprensione rabbinica), fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni Sabato nelle sinagoghe” (At 15,21), e quindi viene ascoltato dai giudeo-cristiani che insieme frequentano il Tempio e celebrano l’eucaristia (At 2,46).
Il raccogliersi dei popoli a Gerusalemme auspicato dai profeti, va quindi inteso come lo stringersi attorno al popolo di Israele riconosciuto come “lampada” e “luce” sul cammino dell’uomo (Cfr. Sal 119,105) . E poiché la storia di Israele non si é conclusa con la caduta del Tempio nel 70 dell’era volgare ma, accanto e di fronte al cristianesimo, é continuata fino ai giorni nostri, é importante riscoprire il valore di una testimonianza che continua ad essere quella di un popolo che “rimane caro a Dio” perché “le promesse e i doni divini sono irrevocabili” (Cfr. Rm 9-11).




Le prospettive di dialogo emergenti                                 
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Sulla base di quanto abbiamo visto, possiamo dire che l’universalismo cristiano affonda le sue radici nella visione universale della salvezza biblica che, secondo la tradizione ebraica, si mostra nella dinamica della relazione e non dell’inclusione: è alla distinzione e al rapporto Israele-genti che ha fatto riferimento la Chiesa giudaico-cristiana delle origini a Gerusalemme, e non all’assimilazione fra giudeo-cristiani e pagano-cristiani.
Dovremmo quindi interrogarci criticamente sui fattori – sia storici che culturali – che, nel trasferimento da Gerusalemme a Roma e nel progressivo venir meno del giudeo-cristianesimo, hanno favorito invece una concezione di universalismo più vicina alla filosofia greca che al dato biblico, la quale ha preferito l’inclusione, l’adeguamento ad un unico modello e la via “a senso unico” piuttosto che la relazione e il dialogo. Ed è in questo contesto che si è sviluppata la cosiddetta “teologia della sostituzione” (la Chiesa ha sostituito Israele) che la Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate al n. 4 ha rimesso in discussione ripartendo direttamente dalla Scrittura (non compaiono infatti in questa sezione citazioni patristiche).

A quarant’anni dal Concilio è importante valutare quanto “le vie a senso unico” sono state rimesse in discussione e quanto invece sono ancora percorse direttamente o indirettamente. Abbiamo camminato molto, e questo Convegno internazionale ne è il segno, ma sicuramente resta ancora tanto da fare.

Possiamo a questo punto concludere con una riflessione di Elia Benamozegh che, riprendendo una famosa affermazione di Simmaco, così si esprime nella parte conclusiva del suo saggio su Israele e l’umanità che abbiamo precedentemente citato:

In Simmaco c’è una frase che esprime mirabilmente la dottrina ebraica sulla necessità delle diverse forme religiose. Dopo aver detto che è giusto supporre che tutto il genere umano non adori in definitiva che un solo e medesimo Essere, si chiede perché esistano allora tanti culti differenti e risponde: “È perché il mistero è così grande che è impossibile raggiungerlo per una sola via”. Nulla si può scrivere di più profondamente vero. Il monoteismo non può divenire universale che a questa condizione: unità nella diversità e diversità nell’unità .

È un augurio anche per noi che, mai come oggi, sentiamo l’esigenza di riscoprire la diversità come un valore, le relazioni come un’opportunità di confronto e arricchimento, nella prospettiva di un cammino comune che deve avvenire nel rispetto delle reciproche Tradizioni culturali e religiose.
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1) E. KOPCIOWSKI, Quale futuro per l'ebraismo italiano?, in Sefer (Studi-Fatti-Ricerche) 8 (1995) [70] 7-8.
2) Cfr. J.J.Petuchowski, Le feste del Signore, Ed. Dehoniane, Napoli 1987, pp. 55-56.
3) Il termine “Legge” nella cultura greco-latina rimanda ad una connotazione prevalentemente giuridica, mentre il termine ebraico Torah esprime l’idea di un insegnamento divino rivelato nella prospettiva di un rapporto di alleanza fra Dio e gli uomini, nel segno dell’amore di Colui che ha liberato dalla schiavitù d’Egitto e continua ad essere fedele alle Sue promesse.
4) Shemot Rabbah V, traduzione italiana in Midrashim, a c. di R. PACIFICI, Marietti, Casale M. 1986, p. 75.
5) Il termine Pentecoste indica la scadenza temporale di cinquanta giorni (sette settimane) a partire dalla Pasqua. In coincidenza di tale scadenza è avvenuto sia il dono della Torah al Sinai che quello dello Spirito sui discepoli e Maria (cfr.: Es 19 e At 2). Sulla conoscenza da parte di Luca della Tradizione rabbinica relativa alle “settanta lingue” al Sinai si può vedere: J.J. PETUCHOWSKI, Le feste del Signore, p. 41-49.
6) E. BENAMOZEGH, Israele e l’umanità, Marietti, Genova 1990, p. 209.
7) Talmud significa studio (dalla radice l-m-d, studiare). Contiene le discussioni dei Maestri autorevoli sulla Torah sia scritta che orale ed esiste in due redazioni: Palestinese e Babilonese.
8) Talmud Babilonese, Sanhedrin, 56b.
9) Le norme solo per gli ebrei prevedono anche l’eliminazione totale del sangue secondo un particolare processo.
10) Si può vedere al riguardo: A. LICHTENSTEIN, Le sette leggi di Noè, Lamed, Milano s.d., pp. 88ss.
11) Per un approfondimento di questo aspetto rimando a: E. L. BARTOLINI, Per amore di Tzion. Gerusalemme nella tradizione ebraica, Effatà, Cantalupa 2005.
12) Per una analisi più precisa del rapporto fra le radici ebraiche dell’universalismo cristiano e le decisioni prese al Concilio di Gerusalemme rimando a: E. BARTOLINI, Chiesa e popolo di Israele. Punto di vista cristiano, in AA. VV., Riempiti di Spirito santo si misero a parlare in altre lingue (Atti della XXXII Sessione di formazione ecumenica organizzata dal Segretariato Attività Ecumeniche - SAE - La Mendola (TN), 23-31 luglio 1994), a c. del SAE, Roma, Dehoniane, 1995, pp. 231-239.
13) Interessante al riguardo il seguente saggio: R. Fontana, Sinai e Sion. Luogo della sapienza degli uomini, CCEJ – Ratisbonne, Jerusalem 1997.
14) E. BENAMOZEGH, Israele e l’umanità, p. 275.

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