Universalismo ebraico
cristiano e prospettive di dialogo
a partire da Gerusalemme
Elena Lea Bartolini, Università
Gregoriana 26 settembre 2005
Nell’orizzonte del rapporto fra i discendenti di
Abramo e le Nazioni che, secondo la tradizione rabbinica, prevede l’accoglienza
della rivelazione sinaitica (Torah) in prospettiva “duale” (ebraismo
e noachismo), è possibile cogliere significative opportunità di
dialogo e di impegno comune fra ebrei e cristiani chiamati a
testimoniare la salvezza del Dio dell’Alleanza secondo i diversi doni
ricevuti: “un’elezione mai revocata” e “l’innesto sull’olivo
buono” (Rm 9-11).
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Nell’orizzonte del rapporto fra i discendenti di
Abramo e le Nazioni che, secondo la tradizione rabbinica, prevede l’accoglienza
della rivelazione sinaitica (Torah) in prospettiva “duale” (ebraismo
e noachismo), è possibile cogliere significative opportunità di
dialogo e di impegno comune fra ebrei e cristiani chiamati a
testimoniare la salvezza del Dio dell’Alleanza secondo i diversi doni
ricevuti: “un’elezione mai revocata” e “l’innesto sull’olivo
buono” (Rm 9-11). È in tale prospettiva che la Chiesa
giudaico-cristiana delle origini, durante il Concilio di Gerusalemme, ha
deciso di fare propria la proposta di Giacomo (At 15,1ss.), ed è anche
secondo questa dinamica che può essere interpretata la “dualità”
insita nel nome ebraico della Città Santa: Jerushalajim, dalla quale,
secondo la profezia di Isaia, dovranno “uscire” la Torah e la “Parola
del Signore” per tutti i popoli (Is 2,3).
Si tratta di riscoprire una prospettiva universale che, attraverso
momenti ed eventi particolari, si apre al dialogo rispettando la
diversità, attuando quell’orizzonte di “benedizione” per “ogni
famiglia della terra” (Gen 12,1-3) nel segno di un rapporto che non
“assimila” a sé ma accoglie il dono dell’altro, nel comune
impegno affinché si compia la salvezza nel “mondo di Dio”.
Il rapporto fra “Israele e le genti” nella tradizione rabbinica
(coordinate generali)
Il rapporto fra particolarità ebraica e universalismo della salvezza
per “tutte le genti” lo ritroviamo nella Scrittura già a partire
dalla chiamata di Abramo (Gen 12,1-4a): Dio infatti, dopo averlo
invitato a partire rimettendo in discussione i suoi progetti, e dopo
avergli promesso una serie di cose che riguardano il popolo che da lui
discenderà attraverso Isacco, gli dice: “...in te si benediranno
tutte le famiglie della terra...(Gen 12,3)”.
In questo passo biblico che testimonia la chiamata e l’elezione divina
del primo patriarca, che è anche il primo ebreo, troviamo due elementi
linguistici particolarmente interessanti: i due imperativi “va per te”
e “sii benedizione” messi in relazione ad un orizzonte che comprende
“tutte le famiglie della terra”. Se consideriamo l’originale
ebraico e il modo in cui la Tradizione lo ha commentato possiamo
cogliere importanti sottolineature. Innanzitutto la singolare
costruzione “va per te” (in ebraico lekh-lekha) traducibile anche
come “va verso di te”, che nel Pentateuco compare solo due volte:
nella chiamata di Abramo (Gen 12,1) e nella prova a cui Dio lo sottopone
quando gli chiede il sacrificio di Isacco che non verrà compiuto (Gen
22,2). La Tradizione rabbinica sottolinea che l’andare di Abramo non
va considerato solo in riferimento a ciò che sta lasciando, tanto più
che, in quanto nomade, ha già comunque deciso di partire, ma va
compreso come una esortazione divina a rimettere in discussione le
proprie scelte per scoprire la profondità della propria vocazione, per
questo gli viene detto “va per te/va verso di te”, che Rav Elia
Kopciowski – autorevole protagonista italiano nel dialogo cristiano
ebraico – commentava come segue:
Va per te, va nel tuo interesse! E, siccome il tuo interesse dovrà
essere l’interesse dell’umanità perché dovrai essere padre di
moltitudini […], sarai una benedizione per le famiglie della terra.
Questo è il tuo dovere.
Abramo è chiamato a scoprire la sua particolare vocazione, che è poi
quella del popolo di Israele, in stretta connessione ad un rapporto di
benedizione universale: “in te si benediranno tutte le famiglie della
terra” (Gen 12,3). Anche in questo in caso la particolare
configurazione passivo-riflessiva del verbo benedire (in ebraico
nivrekhu vekha), piuttosto insolita e rara e traducibile anche come “in
te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”, permette di
interpretare il rapporto di benedizione fra la discendenza di Abramo e l’umanità
come una possibilità che si offre ad ogni uomo e in ogni tempo nell’orizzonte
di un rapporto: ci si deve “benedire” in Abramo, nel suo popolo, non
è chiesto che ci assimili a lui diventando tutti ebrei. Siamo di fronte
ad un principio di relazione nella distinzione tipicamente biblico, il
quale sottintende la possibilità di cammini diversificati verso una
prospettiva comune di salvezza strettamente connessa all’elezione di
Dio nei confronti del suo popolo Israele, la cui dinamica è rilevabile
in alcuni passi dell’Esodo.
Nel capitolo diciannovesimo, dopo l’uscita dall’Egitto e nel
contesto della preparazione alla teofania sinaitica, il Signore
attraverso Mosè dice agli Israeliti: “se ascolterete la mia voce e
custodirete il mio patto (osservando i precetti), sarete per Me un
tesoro fra tutti i popoli, poiché a Me appartiene tutta la terra.
Sarete per Me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,5-6).
Queste parole esprimono contemporaneamente la dimensione dell’elezione
divina che distingue il popolo di Israele dagli altri popoli e il
particolare compito che tale elezione implica: più che un privilegio è
l’invito ad un servizio impegnativo nel segno della santità.
Perché ciò si realizzi è necessario un impegno dichiarato che, di
fatto, troviamo al capitolo ventiquattresimo quando il popolo, dopo aver
ascoltato ciò che Dio ha rivelato a Mosè sul Sinai, dichiara
solennemente: “tutto ciò che il Signore ha detto lo eseguiremo e lo
ascolteremo” (Es 24,7). “Lo eseguiremo”, in quanto è l’insegnamento
di Colui che ha liberato dall’Egitto e quindi vuole il bene del suo
popolo, e “lo ascolteremo” poiché eseguendo i precetti ne
comprenderemo il significato: è accogliendo gli insegnamenti della
Torah che Israele diventa il popolo di Dio e comprende lo scopo per cui
è stato tratto dalla schiavitù alla libertà . Come si può notare
nella logica biblica la concettualizzazione segue sempre un’esperienza,
non la precede, in quanto la verità viene colta come il culmine di un
percorso esperienziale e non un suo presupposto come invece accade nella
cultura occidentale.
Israele pertanto scopre la sua vocazione ad essere il popolo sacerdotale
di Dio nel contesto della sua liberazione, ed impara a diventare tale
attraverso l’esperienza del deserto, alla luce di una rivelazione che
si impegna ad accogliere per camminare “custodendo” il patto che lo
lega al Suo Dio, per diventare “nazione santa” (cfr. Lv 19,2), per
essere luce per le Nazioni chiamate a “benedirsi” in Abramo e nei
suoi discendenti.
Elezione dunque come impegno e responsabilità nei confronti di un
progetto divino affidato ad un particolare popolo in prospettiva
universale.
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La rivelazione “duale” della Torah al Sinai e la sua prospettiva
universale secondo il midrash rabbinico
Per comprendere meglio questo aspetto, possiamo prendere in
considerazione i commenti rabbinici relativi alla teofania sinaitica (cfr.
Es 19-20) durante la quale viene donata la Torah, l’insegnamento
divino rivelato attraverso Mosè, impropriamente e discutibilmente
tradotto in italiano con il termine “Legge” che ne impoverisce la
ricchezza e la profondità di senso.
Un’antica tradizione interpretativa sottolinea che la Torah è stata
donata da Dio in modo che tutti la potessero accogliere e comprendere
“vedendo” la grandezza della Sua voce, eccone uno dei passi più
significativi:
“Tutto il popolo vedeva le voci” (Es 20,18).
Perché le “voci”? perché la voce del Signore si trasformava in
sette suoni e da questi nelle settanta lingue, affinché tutti i popoli
potessero comprendere .
Il numero settanta, nella Scrittura, è un numero simbolico che indica
universalità, e per questo permette di esprimere l’idea che la
Rivelazione di Dio sia stata data in modo da poter essere compresa da
tutti i popoli. L’evangelista Luca, autore degli Atti degli apostoli,
molto probabilmente si è rifatto a questo commento della Tradizione
rabbinica nella stesura della narrazione relativa alla Pentecoste
cristiana che, come lui stesso sottolinea, avviene nello stesso giorno
della Pentecoste ebraica (o festa delle Settimane, in ebraico Shavu‘ot)
in cui si celebra la memoria del dono della Torah al Sinai (cfr. At
2,1-11) , ricorrenza nella quale, non a caso, si legge il Libro di Ruth:
la Moabita (non ebrea) che nel rapporto con la suocera ebrea Noemi
incontra il Dio di Israele e gli rimane fedele.
Secondo la Tradizione ebraica, la Rivelazione sinaitica sarebbe stata
dunque data in maniera che fosse comprensibile per tutti, e non solo per
il popolo di Israele; tuttavia, coerentemente con la logica della
distinzione biblica già menzionata, sarebbe stata data in duplice forma
affinché fosse rispettata sia la particolare vocazione dei discendenti
di Abramo attraverso Isacco che quella di tutti gli altri popoli. In
particolare, le due forme dell’unica Torah sarebbero le seguenti: 613
precetti per gli ebrei e 7 precetti per i non ebrei che desiderano
partecipare alla salvezza del Dio di Israele. I 613 precetti per gli
ebrei costituiscono ciò che normalmente si definisce come halakhah,
cioè prassi religiosa codificata che trova il suo fondamento sia nella
Scrittura che nella Tradizione, la quale abbraccia ogni aspetto della
vita e si traduce in norme piuttosto minuziose e precise; i 7 precetti
per i non ebrei sono invece definiti come “i precetti di Noè” o
noachidi, in quanto sarebbero stati dati da Dio a Noè dopo il diluvio (cfr.
Gen 8,21-9,17) e, nella loro rielaborazione rabbinica, costituiscono una
sorta di minimum di obblighi religiosi ai quali i “giusti come Noè”
(che non è ebreo) presenti in ogni Nazione possono attenersi per
camminare con Israele. Tutto ciò costituisce un “segno di salvezza”
che si irradia positivamente fra i popoli, come ben sottolineato da Elia
Benamozegh, rabbino a Livorno nella seconda metà del 1800 e autore di
un importante saggio sui rapporti fra Israele e l’umanità, ecco cosa
scrive nel medesimo:
Il vero spirito dell’ebraismo si manifesta chiaramente quando proclama
che esistono, tra i gentili, uomini giusti amati da Dio, i cui meriti
fanno la prosperità delle Nazioni. Non è soltanto Giobbe che i dottori
citano come il giusto per eccellenza.
I “giusti fra le Nazioni”, chiamati anche “timorati di Dio” (li
menziona anche Luca, cfr. At 2,11 e 10,2), sono quindi coloro che
insieme al popolo di Israele testimoniano l’orizzonte universale della
salvezza rivelata nella Scrittura secondo un insegnamento divino in
forma duale.
Dei sette precetti noachidi, considerati come una sorta di valori
fondamentali per lo statuto dell’umanità, esistono varie versioni;
quella ritenuta più antica è contenuta nel Talmud Babilonese, opera
autorevole dal punto di vista normativo , che li elenca come segue:
I nostri dottori hanno detto che sette comandamenti sono stati imposti
ai figli di Noè: il primo prescrive loro di istituire magistrati; gli
altri sei proibiscono:
1) il sacrilegio; 2) il politeismo; 3) l’incesto; 4) l’omicidio; 5)
il furto; 6) l’uso delle membra di un animale vivo.
La scelta del numero sette è chiaramente simbolica: sette sono i giorni
della creazione, e per questo nella letteratura biblica il sette esprime
pienezza, inoltre è in stretta connessione con il multiplo settanta
che, come abbiamo visto, indica universalismo.
Se analizziamo poi i singoli precetti, ci accorgiamo che il primo
prescrive l’istituzione di magistrati, lasciando così intendere l’importanza
sia di un confronto autorevole circa la loro applicazione che di una
garanzia affinché possano costituire un diritto per tutti. Ciò che poi
viene vietato non è estraneo agli insegnamenti di altri grandi
religioni o di ciò che potremmo definire principi alla base dei diritti
umani, questo almeno per quanto riguarda il sacrilegio, l’incesto, l’omicidio,
il furto. Il divieto di praticare il politeismo è invece più specifico
e in stretta relazione con il monoteismo ebraico.
Quello che potremmo infine definire il divieto più originale e
interessante è sicuramente la proibizione di cibarsi di membra di
animali vivi: che senso ha dal momento che i medesimi devono comunque
costituire parte del suo sostentamento? Di fatto viene qui riproposta in
chiave universale una norma ebraica relativa alla macellazione rituale:
la stessa deve infatti avvenire velocemente e con strumenti che evitino
il più possibile la sofferenza all’animale. L’idea di fondo è che
la naturale “catena alimentare” non implica necessariamente violenza
nei confronti degli esseri viventi. Tale norma particolare si inquadra
pertanto in quella più generale del rispetto della vita nelle sue varie
forme e, se debitamente attualizzata, può dire molto anche oggi
relativamente al rispetto del nostro pianeta.
Questa serie di precetti è stata successivamente rielaborata,
ricompresa e ridiscussa. Ciò che conta comunque è l’intuizione
originaria: la rivelazione della Torah è per tutti ma in forme diverse
– fondamentalmente due – che comunque portano alla stessa meta,
cioè al bene dell’umanità e del creato che è il “mondo di Dio”.
È opportuno a questo proposito precisare che la diversità numerica
(613 per gli ebrei e solo 7 per i non ebrei), non va assolutamente
interpretata nel senso di una maggiore importanza o di una superiore
santità del popolo di Israele rispetto agli altri popoli, ma va
piuttosto intesa in ordine ad una diversità di vocazione che appartiene
ad un mistero imperscrutabile in quanto dono divino. Non va inoltre
dimenticato che il non ebreo, se lo desidera, può osservare anche altri
precetti, oltre a quelli noachidi, facendo riferimento a ciò che la
Torah prescrive e, di fatto, ciascuno dei 7 setti precetti di Noè
rappresenta un importante ambito legislativo che in epoche diverse ha
dato origine ad articolazioni sempre più elaborate rispetto all’elenco
originario.
Dualità di vie quindi secondo una logica che non legge in concorrenza
Israele e i popoli, ma che li considera in reciproco rapporto di
benedizione affinché la salvezza possa pienamente realizzarsi nella
storia dell’umanità. Ecco perché l’ebraismo, tranne che in
circostanze storiche particolari, ha preferito evitare il proselitismo:
la salvezza del Dio di Israele (che è lo stesso Dio che si è rivelato
ai cristiani) si può raggiungere per vie diverse riconducibili alla
duplice forma della Rivelazione sinaitica.
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Dal Sinai a Tzion/Sion come realizzazione della “benedizione” in
Abramo per “tutte le genti”: la vocazione “duale” di Gerusalemme
La dualità che caratterizza la rivelazione sinaitica ha un suo
possibile e significativo riferimento simbolico sia nel nome ebraico di
Gerusalemme, la Città santa, che in quello di Dio così come compare
nel testo masoretico.
Gerusalemme, in ebraico Jerushalajim, è un nome composto da due
termini. Il primo è Jeru, che in ebraico – per assonanza –
assomiglia a jir’eh (provvederà), e che la Tradizione rabbinica
interpreta nel senso di “visione provvidente di Dio” in relazione al
sacrificio non compiuto di Isacco, la sua “legatura”, con cui Abramo
è stato messo alla prova (Gen 22,1ss.). Il secondo è shalajim, che
comprende la radice di shalom (pace, completezza, benessere), e rimanda
all’antica Salem il cui re-sacerdote Malkitzedeq benedice Abramo in
nome del “Dio Altissimo” (Gen 14, 18-20), segno quindi dell’esistenza
di una città canaea abitata da gentili che servono Dio e che entrano in
relazione positiva con il suo popolo. Il nome di Gerusalemme è pertanto
connesso sia alla vocazione di Abramo che ad un significativo incontro
con le genti.
Inoltre, nel suo insieme, Jerushalajim presenta insolitamente una
desinenza duale (ajim): al di là delle possibili spiegazioni
filologiche e storico-critiche, è possibile leggere questa dualità
anche in relazione alla duplice Torah donata al Sinai che, proprio dal
Monte Tzion/Sion ove Gerusalemme sorge, secondo la profezia di Isaia
deve far luce a tutte le genti:
Verranno [sul Monte Tzion/Sion] molti popoli e diranno:
“Venite, saliamo sul monte del Signore,
al Tempio del Dio di Giacobbe,
perché ci indichi le Sue vie
e possiamo camminare per i Suoi sentieri”.
Perché da Tzion/Sion uscirà la Torah
E da Gerusalemme [Jerushalajim] la parola del Signore.
(Is 2,3)
Il Signore di cui si parla nella Scrittura è indicato prevalentemente
con due nomi: , il Nome proprio con cui Dio si rivela ad Israele e
che – per rispetto verso la Sua trascendenza – non viene mai
pronunciato, ed ‘Elohim che – a differenza del precedente –
designa più genericamente la realtà divina ed è espresso con una
desinenza plurale (im) che può essere intesa in rapporto ad una
possibile pluralità di ricezione sul versante non ebraico. Ecco allora
che l’unico Dio della Rivelazione biblica si manifesta al plurale
secondo la stessa logica duale con cui è stata donata la Torah nell’orizzonte
del rapporto fra il popolo di Israele e gli altri popoli.
Non stupisce allora che la struttura della liturgia ebraica sia
fondamentalmente aperta ai non ebrei e che, in tutte le grandi feste, l’ebreo
abbia la coscienza di rappresentare davanti a Dio tutta l’umanità,
nel senso che sa di dover compiere determinati gesti celebrativi non
solo per sé ma per il bene di tutti in quanto la salvezza deve essere
offerta ad ogni uomo.
Siamo dunque nel contesto di un “universale” che può essere detto e
vissuto in modi diversi, e che si manifesta attraverso particolari
chiamati ad entrare in positiva relazione proprio a partire dalle
singole diversità, comprese come dono divino e non come problema.
Ben si comprende allora sia la portata che la profondità della
profezia, e in particolare di quella di Isaia, che non ha mai smesso di
sottolineare la prospettiva universale della salvezza di
individuando una sua particolare connessione con la vocazione di
Gerusalemme, la Città Santa, chiamata ad offrire una “casa di
preghiera” per tutti i popoli.
Fra i passi biblici più significativi, possiamo ricordare alcune parole
della preghiera di Salomone pronunziata nel momento in cui il Signore ha
preso possesso del Tempio:
Anche lo straniero che non appartiene a Israele Tuo popolo, se viene da
un paese lontano a causa del Tuo Nome perché si sarà sentito parlare
del Tuo grande Nome, della Tua mano potente e del Tuo braccio teso, se
egli viene a pregare in questo Tempio, Tu ascoltalo dal cielo, luogo
della Tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché
tutti i popoli della terra conoscano il Tuo Nome, Ti temano come Israele
tuo popolo e sappiano che al Tuo Nome è stato dedicato questo Tempio
che io ho costruito
(1 Re 8,41,ss.).
Nei libri dei profeti Isaia e Geremia troviamo parole ancora più
esplicite:
Il Mio Tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli (Is
56,7);
Cammineranno i popoli alla tua luce [di Gerusalemme]
i re allo splendore del tuo sorgere (Is 60,3);
In quel tempo chiameranno Gerusalemme trono di JHWH; tutti i popoli vi
si raduneranno nel Nome di e non seguiranno più la caparbietà del
loro cuore malvagio (Ger 3,17).
Le metafore profetiche cercano inoltre di mostrare come la perenne
presenza divina in Tzion/Sion renderà Gerusalemme luogo per eccellenza
della realizzazione dei tempi messianici, che vengono paragonati ad un
grande banchetto segno di profonda comunione fra Dio e gli uomini (Is
25,6-9), poiché è in questo luogo che Israele e i popoli possono
incontrare insieme l’unico Signore della storia.
.:torna su:.
Le scelte del Concilio di Gerusalemme (At 15,1ss.) nell’orizzonte del
rapporto “Israele-genti”
Su questa linea di “dualità” che caratterizza il rapporto fra il
popolo di Israele e le Nazioni, è possibile interpretare la decisione
presa al Concilio di Gerusalemme dalla prima comunità
giudaico-cristiana nel contesto della discussione relativa all’obbligo
della circoncisione e dell’osservanza della Torah per i battezzati di
origine non ebraica: si accoglie la proposta di Giacomo che ribadisce la
necessità di differenziare la prassi per i cristiani di origine pagana,
ai quali viene chiesto di limitarsi all’osservanza solo di poche
prescrizioni che possono essere considerate una formulazione sintetica
dei precetti di Noè (cfr. At 15,1ss.) . Una scelta quindi in linea con
la tradizionale visione ebraica dei rapporti fra ebrei e non ebrei,
sottolineata dalle parole: “Mosè infatti (cioè la Torah e la sua
comprensione rabbinica), fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in
ogni città, poiché viene letto ogni Sabato nelle sinagoghe” (At
15,21), e quindi viene ascoltato dai giudeo-cristiani che insieme
frequentano il Tempio e celebrano l’eucaristia (At 2,46).
Il raccogliersi dei popoli a Gerusalemme auspicato dai profeti, va
quindi inteso come lo stringersi attorno al popolo di Israele
riconosciuto come “lampada” e “luce” sul cammino dell’uomo (Cfr.
Sal 119,105) . E poiché la storia di Israele non si é conclusa con la
caduta del Tempio nel 70 dell’era volgare ma, accanto e di fronte al
cristianesimo, é continuata fino ai giorni nostri, é importante
riscoprire il valore di una testimonianza che continua ad essere quella
di un popolo che “rimane caro a Dio” perché “le promesse e i doni
divini sono irrevocabili” (Cfr. Rm 9-11).
Le prospettive di dialogo emergenti
.:torna su:.
Sulla base di quanto abbiamo visto, possiamo dire che l’universalismo
cristiano affonda le sue radici nella visione universale della salvezza
biblica che, secondo la tradizione ebraica, si mostra nella dinamica
della relazione e non dell’inclusione: è alla distinzione e al
rapporto Israele-genti che ha fatto riferimento la Chiesa
giudaico-cristiana delle origini a Gerusalemme, e non all’assimilazione
fra giudeo-cristiani e pagano-cristiani.
Dovremmo quindi interrogarci criticamente sui fattori – sia storici
che culturali – che, nel trasferimento da Gerusalemme a Roma e nel
progressivo venir meno del giudeo-cristianesimo, hanno favorito invece
una concezione di universalismo più vicina alla filosofia greca che al
dato biblico, la quale ha preferito l’inclusione, l’adeguamento ad
un unico modello e la via “a senso unico” piuttosto che la relazione
e il dialogo. Ed è in questo contesto che si è sviluppata la
cosiddetta “teologia della sostituzione” (la Chiesa ha sostituito
Israele) che la Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate
al n. 4 ha
rimesso in discussione ripartendo direttamente dalla Scrittura (non
compaiono infatti in questa sezione citazioni patristiche).
A quarant’anni dal Concilio è importante valutare quanto “le vie a
senso unico” sono state rimesse in discussione e quanto invece sono
ancora percorse direttamente o indirettamente. Abbiamo camminato molto,
e questo Convegno internazionale ne è il segno, ma sicuramente resta
ancora tanto da fare.
Possiamo a questo punto concludere con una riflessione di Elia
Benamozegh che, riprendendo una famosa affermazione di Simmaco, così si
esprime nella parte conclusiva del suo saggio su Israele e l’umanità
che abbiamo precedentemente citato:
In Simmaco c’è una frase che esprime mirabilmente la dottrina ebraica
sulla necessità delle diverse forme religiose. Dopo aver detto che è
giusto supporre che tutto il genere umano non adori in definitiva che un
solo e medesimo Essere, si chiede perché esistano allora tanti culti
differenti e risponde: “È perché il mistero è così grande che è
impossibile raggiungerlo per una sola via”. Nulla si può scrivere di
più profondamente vero. Il monoteismo non può divenire universale che
a questa condizione: unità nella diversità e diversità nell’unità
.
È un augurio anche per noi che, mai come oggi, sentiamo l’esigenza di
riscoprire la diversità come un valore, le relazioni come un’opportunità
di confronto e arricchimento, nella prospettiva di un cammino comune che
deve avvenire nel rispetto delle reciproche Tradizioni culturali e
religiose.
______________________________
1) E. KOPCIOWSKI, Quale futuro per l'ebraismo italiano?, in Sefer (Studi-Fatti-Ricerche)
8 (1995) [70] 7-8.
2) Cfr. J.J.Petuchowski, Le feste del Signore, Ed. Dehoniane, Napoli
1987, pp. 55-56.
3) Il termine “Legge” nella cultura greco-latina rimanda ad una
connotazione prevalentemente giuridica, mentre il termine ebraico Torah
esprime l’idea di un insegnamento divino rivelato nella prospettiva di
un rapporto di alleanza fra Dio e gli uomini, nel segno dell’amore di
Colui che ha liberato dalla schiavitù d’Egitto e continua ad essere
fedele alle Sue promesse.
4) Shemot Rabbah V, traduzione italiana in Midrashim, a c. di R.
PACIFICI, Marietti, Casale M. 1986, p. 75.
5) Il termine Pentecoste indica la scadenza temporale di cinquanta
giorni (sette settimane) a partire dalla Pasqua. In coincidenza di tale
scadenza è avvenuto sia il dono della Torah al Sinai che quello dello
Spirito sui discepoli e Maria (cfr.: Es 19 e At 2). Sulla conoscenza da
parte di Luca della Tradizione rabbinica relativa alle “settanta
lingue” al Sinai si può vedere: J.J. PETUCHOWSKI, Le feste del
Signore, p. 41-49.
6) E. BENAMOZEGH, Israele e l’umanità, Marietti, Genova 1990, p. 209.
7) Talmud significa studio (dalla radice l-m-d, studiare). Contiene le
discussioni dei Maestri autorevoli sulla Torah sia scritta che orale ed
esiste in due redazioni: Palestinese e Babilonese.
8) Talmud Babilonese, Sanhedrin, 56b.
9) Le norme solo per gli ebrei prevedono anche l’eliminazione totale
del sangue secondo un particolare processo.
10) Si può vedere al riguardo: A. LICHTENSTEIN, Le sette leggi di Noè,
Lamed, Milano s.d., pp. 88ss.
11) Per un approfondimento di questo aspetto rimando a: E. L. BARTOLINI,
Per amore di Tzion. Gerusalemme nella tradizione ebraica, Effatà,
Cantalupa 2005.
12) Per una analisi più precisa del rapporto fra le radici ebraiche
dell’universalismo cristiano e le decisioni prese al Concilio di
Gerusalemme rimando a: E. BARTOLINI, Chiesa e popolo di Israele. Punto
di vista cristiano, in AA. VV., Riempiti di Spirito santo si misero a
parlare in altre lingue (Atti della XXXII Sessione di formazione
ecumenica organizzata dal Segretariato Attività Ecumeniche - SAE - La
Mendola (TN), 23-31 luglio 1994), a c. del SAE, Roma, Dehoniane, 1995,
pp. 231-239.
13) Interessante al riguardo il seguente saggio: R. Fontana, Sinai e
Sion. Luogo della sapienza degli uomini, CCEJ – Ratisbonne, Jerusalem
1997.
14) E. BENAMOZEGH, Israele e l’umanità, p. 275.