Parla Jean-Baptiste
Gurion, che da agosto guida a Gerusalemme la comunità dei cattolici
di espressione ebraica. È il primo israelita vescovo nella terra di
Gesù dai tempi apostolici.
Per la prima volta dai tempi della Chiesa primitiva, in Israele c'è
un vescovo che proviene dall'ebraismo. Jean-Baptiste Gurion, monaco
benedettino, d'origine sefardita, lo scorso agosto ha ricevuto la
nomina episcopale, e a novembre è stato consacrato dal Patriarca di
Gerusalemme, vescovo ausiliare in Terra Santa per la comunità
cattolica d'espressione ebraica. Gurion, figura imponente e schiva,
non ama concedere interviste ma ha fatto un'eccezione per il nostro
giornale.
L'abbiamo incontrato nel monastero benedettino di Abu Gosh (l'antica
Emmaus secondo molti storici), un villaggio arabo-israeliano sulla
strada fra Gerusalemme e Giaffa, un luogo che custodisce straordinari
monumenti fra cui una stupenda chiesa crociata.
Eccellenza, lei è cresciuto in
ambiente ebraico. Come ha incontrato il cristianesimo?
La mia conversione è maturata leggendo Simone Weil. Le sue
riflessioni sulla Shoah, in particolare sulla sofferenza dei giusti,
mi hanno provocato un autentico choc. Ho iniziato così un cammino
spirituale lungo il quale ho incontrato la fede. Ad un certo punto,
non so esattamente quando, mi è diventato chiaro che tutto l'immenso
dolore degli uomini Dio l'aveva fatto proprio, l'ha preso sulle sue
spalle. Le sembrerà strano ma sono diventato credente quasi senza
accorgermi.
Perchè ha scelto di venire in Israele?
Nella comunità benedettina cui avevo aderito si pregava ogni
giorno per l'unità dei cristiani. Il nostro abate aveva avuto
un'intuizione: l'unità fra le Chiese non si può fare senza la
riconciliazione con gli ebrei. Il che non vuol dire convertirli,
bensì ritrovarli come fratelli maggiori, riconoscere il loro posto
nella storia. Per questo sono venuto qui ad Abu Gosh: per riscoprire
le radici giudaiche della Chiesa. Fa parte di quel tentativo di
purificare la memoria cui ci ha richiamato Giovanni Paolo II. Devo
dirle la verità: ho l'impressione che non si sia ancora capito fino
in fondo l'enorme significato profetico dei suoi gesti.
Pochi mesi fa lei è stato consacrato vescovo. Con quale missione?
Sono vescovo ausiliare del Patriarca di Gerusalemme per la cura
pastorale dei cattolici di lingua ebraica. Così sta scritto nella
bolla papale della mia nomina.
Si riferisce agli ebrei convertiti al cristianesimo?
Non solo a questi. La comunità che mi è stata affidata comprende
anche coloro che provengono da matrimoni misti o si sono stabiliti in
Israele per varie ragioni. Insomma tutti coloro che vivono la loro
fede dentro la cultura ebraica.
Cosa significa Israele per lei?
Il fatto di stare qui mi evita di cadere nella schematizzazione
che vede la Chiesa come una realtà che si è sostituita al popolo
eletto. Israele per me è una realtà viva. Convertendomi al
cristianesimo non ho avvertito nessuna rottura. O meglio: a livello
storico e sociologico la rottura è evidente, è iniziata con la
separazione tra la Chiesa e la sinagoga ed è andata avanti con tutti
i problemi e le tragedie che ben conosciamo, l'antisemitismo e così
via. Quando ho abbracciato il cattolicesimo, per la mia famiglia è
stato un dramma. Ma, a livello personale, nel profondo del cuore, ho
sperimentato una continuità totale. È stato come l'approdo dopo una
lunga navigazione.
Cosa intende dire esattamente?
Che il popolo ebraico continua ad essere amato da Dio. Per
davvero, non in senso vago e moralistico. Continua cioè ad avere un
suo ruolo, anche se noi non lo conosciamo e facciamo fatica a
definirlo. Per molto tempo abbiamo cercato di risolvere il problema
sopprimendolo con la teologia della sostituzione. Invece è un mistero
su cui siamo chiamati a riflettere e meditare.
E qual è l'atteggiamento d'Israele nei suoi confronti?
Molto diversificato, gli israeliani non la pensano tutti allo
stesso modo. Parecchie persone, anche fra gli ultra-ortodossi, hanno
accolto con favore la mia nomina episcopale. E i giornali, salvo rare
eccezioni, ne hanno parlato in termini molto positivi.
C'è chi ha interpretato la sua nomina come il tentativo di
correggere la linea politica della Chiesa locale, troppo sbilanciata
in senso filo-palestinese...
È del tutto falso. Non c'è alcun problema di questo tipo, i miei
rapporti con il Patriarca Sabbah sono molto buoni. È lui che mi ha
ordinato vescovo. E l'ha fatto in lingua ebraica, il che è molto
significativo. Mi sembra ovvio che tra noi ci siano sensibilità
diverse. Ma questo non vuol dire che i nostri giudizi siano
contrastanti. Tutti soffriamo per questa situazione di conflitto e
tutti vogliamo la pace che, ci tengo a sottolinearlo, dentro la
comunità cristiana non è una parola vuota ma qualcosa di cui
facciamo esperienza insieme, in profonda unità.
Qual è il suo giudizio sul muro voluto da Sharon?
Dubito fortemente che sia una soluzione. Non voglio entrare nella
disputa se sia uno strumento efficace di difesa contro i terroristi
oppure no. Guardo le cose da un punto di vista più generale: ho
sempre sperato che israeliani e palestinesi potessero arrivare un
giorno a convivere pacificamente. Se il muro diventa un'opzione
politica è la fine di tante speranze. La pace non sarà mai il frutto
della vittoria di uno sull'altro.
Da Gerusalemme, Luigi
Geninazzi
_________________
[Fonte: Avvenire del 31 dicembre 2003]