Un
intervento del rabbino capo di Milano a partire dall'articolo di don Giussani
pubblicato su la Repubblica del 2 gennaio 2000, dal titolo: «Noi siamo degli ebrei».
I motivi di un dialogo che deve continuare, a partire dalla comune radice e
dalla storia che ne è nata
A distanza di sessant'anni dall'emanazione delle norme anti-ebraiche del
regime mussoliniano, a chi mi chiede un commento, un'impressione o un ricordo
che riassuma l'impatto che quella normativa scellerata ebbe sugli ebrei
italiani, che dall'oggi al domani scoprirono di non essere più uomini e donne
normali, ma una sorta di "paria" emarginati ed estromessi dalla vita,
che fino a poco tempo prima, bene o male, riuscivano a condurre insieme agli
altri cittadini, io rispondo con una parola: incredulità.
Al di là, infatti, del dolore, delle preoccupazioni e della disperazione che un
tale stato di cose induceva in tutte le famiglie degli ebrei d'Italia, lo
stupore per un'iniziativa tanto criminale quanto ingiusta, in me (allora ero
piccolissimo) e nei miei era prevalente su altri sentimenti, anche se in realtà
chi avesse tenuto d'occhio i segnali sempre più intolleranti che emergevano
dalla politica del regime già da diversi anni, si sarebbe accorto che qualcosa
di efferato stava maturando contro gli ebrei.
Oggi, con riferimento a quei giorni, sono più portato a chiedermi come sia
potuto accadere che la popolazione, cioè la gente comune, i colleghi, i
conoscenti dei quarantamila ebrei italiani, nella loro stragrande maggioranza,
non abbiano reagito, non abbiano mosso un dito, non abbiano detto una parola
magari solo di solidarietà e di condivisione nei confronti delle vittime, fino
a pochi giorni prima persone libere e normali come loro.
Ricordando
la Shoah
A pensare e scrivere queste cose mi induce una lettera di Luigi Giussani
pubblicata su la Repubblica del 2 gennaio scorso, intitolata «Noi siamo
degli ebrei». Don Giussani si riferisce al rifiuto di Pio XI di dare un avallo
alle leggi razziali, come gli veniva richiesto, rifiuto formulato più o meno
con le parole «Noi siamo spiritualmente degli ebrei».
È certo che questa frase torna ad onore del Papa di allora, ma, a un tempo, fa
emergere in maniera drammaticamente evidente come quei nobili e religiosi
sentimenti non fossero di fatto condivisi e testimoniati dalla stragrande
maggioranza dei cittadini italiani di allora, tutti di fede cattolica. E viene,
in particolare, da chiedersi - stimolati dalle parole elevate di don Giussani -
quale concezione dell'uomo sia stata insegnata e trasmessa a quella generazione,
se si è potuto abbandonare alla persecuzione e alla morte - senza dire o fare
pressoché nulla - uomini, donne e bambini che, ancorché colpevoli di essere
ebrei, erano pur tuttavia portatori, assieme a tutti gli altri uomini, del
marchio divino (immagine=zélem) che conferisce una sorta di sacralità
da non conculcare e da non profanare mai.
Debbo riconoscere che da quei tempi lontani a oggi, è stato percorso un lungo
tratto di strada che ha consentito al popolo cristiano (almeno in una sua parte
che non sono in grado di quantificare, ma che è comunque qualitativamente
rilevante) di vedere con altri occhi e con altro cuore gli ebrei, riscoprendo
nella loro lunga e misteriosa storia spirituale taluni elementi comuni che
spiegano e giustificano alcuni tratti dell'identità religiosa dello stesso
popolo cristiano.
La
storia di Israele
Sono gli effetti del cosiddetto "dialogo" che, sia pur faticosamente,
sta plasmando un nuovo tipo di approccio da parte di cristiani ed ebrei nei
confronti gli uni degli altri.
Io oso pensare - anche in questo particolare contesto ci si sente troppo
inadeguati e fragili per esprimere giudizi e previsioni - che da parte della
Chiesa si dovrebbe insistere di più (anche se già qualcosa si sta facendo in
tale direzione) per una maggior conoscenza della storia e della spiritualità di
Israele, al fine di riuscire a restituire un "volto ebraico" a Gesù.
Che cosa significa "un volto ebraico"? Significa che fino a pochissimo
tempo fa il volto, la figura, la vita, i pensieri, la lingua di Gesù non
avevano alcunché che ricordasse l'Ebraismo e l'ebraicità. Eppure Gesù era
ebreo e, fino alla sua morte, si muove e opera all'interno di un'ottica,
religiosa e comportamentale, assolutamente ebraica.
Una tale operazione di estraneazione di Gesù dal popolo d'Israele - che
risponde evidentemente a motivi politici, apologetici e quant'altro in cui,
peraltro, non sono legittimato a entrare - ha, secondo me, posto le premesse e
acuito un antisemitismo divenuto sempre più virulento e aggressivo.
Il recupero della figura di Gesù all'interno di un contesto ambientale dominato
da idee, concezioni e usi appartenenti alla tradizione d'Israele, potrebbe - col
tempo, con perseveranza, con pazienza, con l'ottimismo che nasce dalla fede in
un futuro pacificato e affratellato, giusta la concezione messianica - rivelarsi
la carta vincente risolutiva della partita contro l'antisemitismo cristiano.
Ritrovamento
e riconciliazione
Occorre che cristiani ed ebrei vadano avanti in questo cammino di ritrovamento e
di riconciliazione, ciascuno con la sua fede e le sue certezze, nella
consapevolezza che un superiore e misterioso disegno provvidenziale entrambi ci
coinvolge e ci guida fino al momento, quando Dio vorrà, del suo disvelamento.
Come scrive don Giussani, penso anch'io che la fedeltà nell'attesa di Dio sia
faticosa e possa talvolta tradursi in uno stato doloroso del credente. Aggiungerò
solo che la certezza di un domani che sarà migliore di oggi (è questa la
quintessenza della dottrina messianica d'Israele), unita a un senso di umiltà,
che dobbiamo ritrovare in vista di un appuntamento così promettente e
grandioso, potrà forse liberarci dalle angosce e dalle ingiustizie del
presente.
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