«Arafat? E
chi è Arafat? Dio? Io vado alla Moschea soltanto per Dio»: elegante e
vestito per la festa, diventa tutto rosso di rabbia e ci volta la schiena
inferocito, seguitando a scendere sulla Via Dolorosa, uno dei 160mila
fedeli di tutte le età che alle dieci di mattina vanno verso la Moschea
di Al Aqsa per la preghiera del penultimo venerdì di Ramadan.
La polizia non ha posto limiti di età stavolta,
forse proprio pensando che la tristezza per l’aggravarsi delle
condizioni del Raiss andasse guardata con riguardo e apparente distacco, e
che gli ultimi tre venerdì sono passati lisci. Ma i giovani poliziotti
israeliani (sono mille solo sulle porte di entrata e altre migliaia in
tutta la città), palesemente molto in guardia, controllano tutti gli
ingressi e le strade di pietra bianca e lucida di sole nella Città
Vecchia; con calma ma con determinazione rimandano indietro chiunque non
sia identificabile come un cittadino israeliano con la carta d’identità
azzurra. Chi l’ha verde, deve tornare a casa.
La paura che alla fine della preghiera cominci la
pioggia di pietre sugli ebrei sotto il Muro del Pianto è grande: un
serpente di centinaia di uomini della forza speciale detta «Yamam» sta
pronta sul sentiero in salita che porta del muro del Tempio sulla Spianata
a irrompere se alla fine della preghiera scoppiasse la rabbia.
Primo venerdì senza Abu Ammar. Com’è? Vuoto?
Triste? Fermiamo la gente che come un fiume entra dalla porta dei leoni (Babel
Assad per i mussulmani, per gli ebrei Shar ha raiot) e poi al Babel Zahar
e alla fine arriviamo dove non si passa, il Babel Yehud sopra il Kotel, il
Muro del Pianto. Sull’angolo dell’entrata alla Porta dei Leoni,
proprio accanto alla porta di pietra antichissima, c’è un riquadro, un
cimiterino circondato da una ringhiera di ferro: vi è sepolto Feisal
Husseini, uno dei capi storici del Fatah: durante il suo funerale tre anni
fa Gerusalemme saltò per aria con scontri, sparatorie, invasioni di folla
micidiali; e vicino a lui, con altri membri della sua nobile famiglia
Gerusalemitana, anche alcuni rampolli della famiglia Nashashibi,
altrettanto nobili e storici rivali. Qui, si dice, Arafat ha sempre
desiderato essere sepolto, come un grande di Gerusalemme, e probabilmente
in queste ore la discussione sotterranea con Israele, che ha detto un
sonoro no, verte proprio su un’alternativa possibile.
Azmi, guidatore di autobus, non da molta importanza
a dove sarà sepolto il Raiss: «Il suo tempo era venuto, è stato il
nostro capo e il nostro simbolo per più di 35 anni, adesso dobbiamo fare
senza di lui. Ha sbagliato molte cose: a volte ha avuto troppa paura degli
occidentali, non ha attaccato quanto doveva. Altre volte si è innervosito
troppo in fretta. Del resto con un nemico tanto terribile ha fatto quel
che poteva. Ma ci lascia poveri, con tanti morti. Non si può dire che ha
fatto tutto bene. Però ha fatto del suo meglio. Ora basta, è finita la
sua epoca, doveva finire molto prima, e quelli che sono venuti su con lui,
non mi piacciono affatto. Sono tutti là a dividersi la torta».
«Banda di mafiosi» aggiunge senza complimenti un
signore con giacca blu che non vuole essere identificato neppure col nome
proprio. Questa paura dell’identificazione è comunque di tutti, è come
se ci fosse ancora una grande soggezione nei confronti del capo, anche se
è a Parigi, in ospedale. «Un grande leader, io lo amo e spero che Allah
lo salvi» sussurra una donna anziana a braccetto con un’altra che
approva con la testa, vestite come quasi tutte secondo i dettami della
religione, coperta dalla testa ai piedi. Fathma però, una 40enne
tradizionalista anch’essa, si ferma e interviene: «A me, invece, non
importa di lui: guardate in che condizione siamo. Io ho un figlio in
prigione, la mia amica un fratello morto... Doveva combattere per vincere,
non per rovinarci. Hamas? Forse è quello che ci vuole. Non mi importa
però neppure dei successori. Di più, non mi piace nessuno di questi
mafiosi che vedo in giro. Capisco d’altra parte che la guerra non è
finita, ci vuole qualcuno che ci guidi. Non non ho nulla contro quelli che
chiamate terroristi, lo fanno per disperazione».
L’impiegato di banca Feis è più generoso con
Arafat. Avrà trentacinque anni, lo accompagna una moglie anche lei
vestita in modo tradizionale, con gli occhialini e il velo, che vuole
assolutamente dirci che si chiama Samira: «Se Abu Ammar se ne andrà noi
resteremo comunque un grande popolo di combattenti. Non c’è che dire,
lui ce l’ha insegnato. Forse a Camp David avrebbe dovuto dire di sì, e
magari continuare comunque la lotta. No, non so immaginarmi affatto di
vivere fianco a fianco con gli ebrei, non penso che Abu Abbas o chi per
lui porterà la pace. Arafat era molto bravo e intelligente, solo lui
sapeva sempre cosa fare, come parlare, sapeva che Sharon non vuole la
pace, e quindi lo trattava di conseguenza. Gli ebrei non l’hanno mai
capito, non hanno mai capito come si tratta un palestinese, lui li ha
rimessi a posto, sempre. Pregare per la sua salute? Dio sa quel che fa, ma
non si può più sperare che guarisca».
Isham Getty (finalmente uno col nome e il cognome, se sono quelli veri)
sospira malizioso: «Era venuto il suo tempo, era circondato da corrotti,
un leader viene e uno va, ne verrà un altro, chi, Abu mazen? Mah! Non fa
molta differenza, speriamo sia uno che distribuisca i soldi al popolo, non
solo ai suoi uomini».
Due ragazzini di 16 anni, tutti sorridenti, Muhammad
e Hassan, ritengono che Arafat è stato grande, che aveva fatto il suo
tempo. Hassan, che è molto bello e vestito alla moda Nike specifica:
«Certo, due stati per due popoli, e che altro? Ma come fare...bisogna
essere forti, loro sono forti. Terrorismo non so cosa sia, non c’è
terrorismo, è guerra. Forse doveva accettare Camp David. Alla fine, da
una parte lo amo, ma dall’altra non è stato bravo, non abbiamo ancora
niente. Comunque, ci vogliono in ogni caso leader nuovi, completamente
diversi, non come lui o i suoi amici, neppure come Hamas». E chi allora?
«Io» dice molto serio. E c’è da crederci. La folla riempe le strade,
si rovescia verso i negozi di pistacchi caldi, frutta secca, dolci. Un
mercato di balocchi, vestiti, scarpe a poco prezzo attira decine di
migliaia di persone che vivono e aspettano il futuro, mentre a Parigi
Arafat li lascia.