Francesca Albertini *
___________________
* Università di Friburgo
|
Moses
Mendelssohn
Traducendo Es
3,14, inizialmente Mendelssohn si scontrò con una difficoltà
grammaticale e linguistica immanente nel versetto. In primo
luogo il pronome ashèr , detto localivo d'origine,
introduce una proposizione secondaria all'interno della quale
generalmente troviamo l'oggetto del predicato o il soggetto
dell'azione, ovvero ogni altro tipo di complemento. Ma
all'interno della Bibbia ashèr agisce spesso come una
congiunzione od una frase subordinata esplicativa. In
secondo luogo - e questa è la difficoltà maggiore. Èyèh
è la prima persona singolare del verbo hâyâh (qui
all'imperfetto), che è di solito tradotto come 'essere'.
Secondo Mendelssohn, nel caso particolare di Es 3,14 potremmo
trovarci di fronte a una forma arcaica e astratta del verbo 'essere',
la quale indicherebbe qui un'azione che si svolge
contemporaneamente nel passato, nel presente e nel futuro. In
altre parole, Mendelssohn osserva che, anche se il verbo
'essere' indica uno status definito e permanente del soggetto,
in Es 3.14 esso pone in rilievo il dinamismo del soggetto,
dinamismo che situa sullo stesso piano temporale la frase
principale e la secondaria.
Alla luce di
queste difficoltà, è evidente che la traduzione di Es 3.14 non
è fondata tanto sulle mere competenze linguistiche e
grammaticali di un traduttore, quanto sulla sua particolare
concezione dell'Essere Divino, nell'osservare che una traduzione
letterale di Es 3.14 è impossibile.
Mendelssohn
traduce l'intero passo con una lunga perifrasi, piuttosto che
appellarsi ad una traduzione concisa, come avevano fatto gli
esperti tedeschi che lo avevano preceduto: Gott sprach zu
Mosche: ich bin das wesen welches ewig ist er sprach nämlich:
so zu den kindern Jisraels sprechen : das Ewige Wesen welches
sich nennt. ich bin ewig, hat mich zu euch gesendet.
Questa lunga
perifrasi può essere tradotta come segue:
D-o disse a Mosè: io sono l'Essere (Ente) Eterno. Ed egli
disse: questo dirai ai figli d' Israele: l'Essere Eterno, che
chiama se stesso "Io sono Eterno" mi ha mandato a voi.
A partire da
questo momento nella traduzione della Torah di
Mendelssohn troveremo sempre il Tetragramma reso con
"Der Ewige" (L'Eterno). È proprio Mendelssohn
colui che introduce nell'Ebraismo tedesco della sua epoca questo
termine per tradurre l'inesprimibile Tetragramma;
successivamente questa tradizione è stata in grado di imporsi
nel mondo Ebraico tedesco a dispetto della resistenza di molti
esperti.
Per quanto
riguarda la traduzione originale, è lo stesso Mendelssohn a
chiarire il suo punto di vista nell'esteso Biur dedicato
a Es 3,14, in cui il filosofo spiega le ragioni che lo hanno
portato a tradurre in quel particolar modo Èyèh ashèr Èyèh:
«" Io
sono colui che sono" secondo il midrash (Berakot 9b), il
Santo (che Egli sia sempre Benedetto) disse a Mosè: dì loro,
io sono colui che io ero ed ora io sono lo stesso e io sarò lo
stesso nel futuro [ e ancora i nostri rabbini di venerabile
memoria dicevano: io sarò con loro in questa sofferenza così
come io sono con loro nella schiavitù sotto altri regni. essi
volevano dire che] il passato e il futuro sono nel presente del
creatore, vedendo che il tempo per lui non è mutevole né
fissato (Gb 10,17) e che nessuno dei suoi giorni si esaurisce.
per lui tutti i tempi sono chiamati con lo stesso nome e con una
sola espressione che include passato, presente e futuro».
Come conseguenza,
secondo Mendelssohn, Der Ewige
(L'Eterno) o l'Ewiges Wesen (l'Essere Eterno)
implica la necessità dell'esistenza di D-o ed anche la sua
interminabile, inesauribile ed incessante Provvidenza.
Utilizzando questo nome è come se D-o avesse detto addirittura
: "Io sono con i figli degli uomini che sono benigni e
misericorD-osi nei confronti di coloro verso cui io uso
misericordia. Ora di' ad Israele che io ero, io sono, io sarò...
ed io sarò con loro ogni volta che essi grideranno verso di
me".
In questa parte
del suo commento a Es 3,14, Mendelssohn sembra riportare la
definizione dell'Essere Divino all'esperienza umana del tempo,
all'imprevedibilità di un futuro che può assumere innumerevoli
forme. Alla luce di questo significato particolare, la prima
parte del versetto indicherebbe l'Essenza di D-o, mentre la
seconda parte indicherebbe le mutevoli manifestazioni di
un'unica sostanza, che è in realtà sempre identica a se
stessa.
Questo
"incipit" del commento di Mendelssohn confuta una
delle critiche di Raphaël Hirsch, secondo la quale il termine Der
Ewige (L'Eterno) svilirebbe l'importanza della Divina
Provvidenza nella storia dell'umanità. Al contrario, la
Provvidenza è una delle categorie fondamentali del pensiero
filosofico e religioso di Mendelssohn e la Provvidenza avrà un
ruolo essenziale in "Jerusalem", opera in cui
il filosofo mostra come l'essere umano, se non crede nella
Provvidenza, nell'immortalità dell'anima e nelle eterne verità
di D-o, non può realizzare il suo fine ultimo, che è quello di
essere felice. Secondo un'ipotesi accattivante avanzata da alcuni
esperti francesi, mediante la traduzione Ich bin das wesen,
welches ewig ist potremmo mettere in evidenza la possibilità
- che ci è data da D-o mediante la Provvidenza - di superare il
tempo all'interno del tempo stesso o di trasformare la memoria
in uno strumento di redenzione.
Alla luce della
lettura di Es 3,14 operata da Mendelssohn, la Provvidenza dona
all'essere umano (l'essere finito che non può conoscere
alcun'altra dimensione al di fuori della sua propria finitudine)
un'apertura attraverso una dimensione al di là del tempo. Ma la
via per raggiungere questa dimensione si situa nella condizione
terrena dell'essere umano, e quindi nella Provvidenza, dato che
l'eternità è già sperimentata nel mondo degli uomini e delle
donne, nella comunione di coloro che pregano. Gli esperti che
hanno fornito questa ipotesi suggestiva non spiegano se
Mendelssohn comprenda l'eternità come assenza di tempo oppure
come una dimensione al di là del tempo che può essere definita
solamente in termini negativi in relazione a ciò che noi
conosciamo come "tempo".
Qualsiasi
valutazione venga fatta, è sicuro che la Redenzione è per
Mendelssohn una vista sul passato, che viene ora letto alla luce
del suo significato più profondo e che si trasforma in un
"presente provvidenziale". Questo presente
provvidenziale annulla la sua dimensione temporale proprio
quando la raggiunge.
Nel commento a Es
3,14, Mendelssohn non si confronta affatto solo con la categoria
temporale. Secondo il filosofo, questo versetto contiene un
triplice significato: l'eternità, l'esistenza necessaria e -
ovviamente - la Provvidenza. Nel giustificare la sua posizione,
nel suo commento a Es 3,14, Mendelssohn scopre alcuni eminenti
predecessori (Onqelos che ha scritto in Aramaico, Saadia e
Maimonide che hanno scritto in Arabo) che hanno dovuto prendere
una decisione draconiana: il primo dei tre ha optato per
l'utilizzo dell'idea di Provvidenza, mentre gli altri due hanno
optato per l'esistenza necessaria, ancora, donata. Ben Uziel ha
optato per il legame con la dimensione temporale.
Mendelssohn
afferma di aver optato per il termine Der Ewige
(L'Eterno) traducendo sia Es 3,14, sia il Tetragramma, poiché
tutti gli altri significati dell'identità divina e del Nome
Divino sorgerebbero naturalmente da questo aggettivo
sostantivato. Secondo questo punto di vista, l'Essere Necessario
Eterno (Das ewig notwendig) e "l'Essere previdente e
provvidente" (das vorsehende Wesen) sono l'uno lo
specchio dell'altro, così che essi hanno un valore equivalente.
Infatti, nel pensiero di Mendelssohn tutti questi significati
sono racchiusi in Es 3,14.
Nella scelta di
Mendelssohn troviamo una parte della sua convinzione (che non è
più sostenibile per Rosenzweig, come mostrerò meglio in
seguito) nella possibilità di una teologia razionale. In
evidente contraddizione con l'esperienza offerta dalla Storia
della Filosofia, l'Essere Previdente-Provvidente emerge da una
conclusione logica a partire dall'Essere Necessario Esistente.
In altre parole,
per Mendelssohn, il cui pensiero è ancora pre-critico (vale a
dire precedente alla più importante opera di Kant), è
l'essenza che ha la supremazia sull'esistenza.
Anche se le
azioni del D-o di Mendelssohn tramite la Sua Provvidenza sono
all'interno della Storia, Egli è ancora un D-o la cui identità
astratta e concettuale ha la meglio sulla sua concreta Teofania.
Il D-o di
Mendelssohn è ancora il D-o di un filosofo, anche se egli tenta
una difficile mediazione tra la fede Giudaica e il suo pensiero
Illuministico.
Franz
Rosenzweig
Secondo quanto
afferma Leo Baeck, sulla base della corrispondenza di quegli
anni tra Rosenzweig e Buber, si può affermare senza
allontanarsi troppo dalla realtà che Rosenzweig influenza Buber
per la traduzione di Es 3,14, dal momento che quest'ultima
contiene una tradizione perfettamente consona al concetto di
Redenzione di Rosenzweig sviluppato all'epoca di "Der
Stern der Erlösung" ("La Stella della
Redenzione"). Rosenzweig traduce Es 3,14 nel seguente modo:
Gott aber sprach zu Mosche:
Ich werde dasein, als der ich dasein werde.
Und sprach:
so sollst du zu den Söhnen Jisraels sprechen:
"Ich bin da" schickt mich zu euch
A partire della
spiegazioni di Rosenzweig che si trovano nella succitata
corrispondenza, dobbiamo cercare di capire che cosa significhino
i termini dasein e werde rispetto all'Ewigkeit
(Eternità) di Mendelssohn.
In una lettera ad
Hans Ehrenberg datata 23 aprile 1926, Rosenzweig afferma che la
sua tradizione di questo enigmatico versetto è stata
influenzata dalla ricerca di Benno Jacob sull'Esodo
(pubblicata nel 1922 col titolo "Moses am Dornbusch").
Basandosi su questa ricerca, che è centrata sul problema
dell'identità divina così come Essa si manifesta
nell'Esodo, nella sua traduzione Rosenzweig non privilegia il
significato di "esistenza necessaria" del termine èhyèh,
bensì quello di "Provvidenza". Anche ad un livello
meramente linguistico, èhyèh non possiede il
significato statico dell'essere, ma il significato dinamico di
un Essere che diviene e agisce.
Questo versetto
indica l'Identità divina pronunciata e mostrata da D-o stesso,
e pertanto rimanda ad un'effettiva presenza di D-o accanto a Mosè.
Secondo Rosenzweig, è evidente che l'infelice popolo ebraico,
cui Mosè deve rendere conto del suo incontro con D-o vedendo le
sue condizioni di schiavitù, si aspetta tutto fuorché una
conferenza ex-cathedra sulla necessaria esistenza di D-o.
Gli Ebrei e il loro esitante condottiero hanno bisogno di una
spiegazione che allontani ogni ragionevole dubbio.
Per questo
motivo, secondo quanto è scritto in una lettera di Rosenzweig a
Buber il 23 giungo 1923, il contesto biblico giustifica una sola
traduzione di Es 3,14, una traduzione che non può avere a che
fare con "l'Essere Eterno" ma , al contrario, deve
riguardare "l'Essere Presente", che è e diviene con e
vicino al popolo ebraico.
Nel pensiero di
Rosenzweig, il monoteismo biblico non consiste in un'unica,
semplice idea di D-o, bensì nel riconoscere questo D-o come un
Essere che non è separato dall'esistenza concreta, il che
significa che essa sia più personale e immediata: èhyèh e
Ich bin da, pronunciato dal roveto ardente e consegnato
all'essere umano per il tramite di Mosè.
Secondo
Rosenzweig, il terzo capitolo dell'Esodo contiene
l'auto-testimonianza di D-o, che consente di rischiarare la
superficie opaca del Tetragramma. D-o non nomina Se stesso,
come l' "Essere Essente" (der Seiende), ma
come l' "Essere Esistente" (der Daseiende),
Colui Che esiste non solo in Se stesso, ma anche "per
te", Che esiste per te faccia a faccia (metafora che sarà
conservata cara da Emmanuel Lévinas), Colui Che si avvicina a
te a ti aiuta. Basandosi su questo significato particolare,
Rosenzweig scrive in una lettera a Ernst Carlesbach datata 2
agosto 1924:
Il D-o di Mendelssohn non mi consente di esprimermi
familiarmente nei suoi confronti; non posso dirgli :
"Tu".
In questa
traduzione/interpretazione di Es 3,14, Rosenzweig è quasi
obbligato a confrontarsi con Mendelssohn. Nel saggio Der
Ewige, Rosenzweig mostra una grande stima nei confronti di
Mendelssohn, "l'uomo che ha consentito agli Ebrei tedeschi
di comprendere il significato della loro Deutschtum (della
peculiarità del loro essere tedeschi)", anche se
l'Ebraismo di Mendelssohn è fondato esclusivamente sulla divina Gesetzgebung,
vale a dire solo sulla Legge rivelata. È vero che, in accordo
con Mendelssohn, Rosenzweig ritiene che la fede sia fondata
sull'evento della Rivelazione e che la Rivelazione si
rifletta nella Legge Divina. Ma, mentre Mendelssohn concepisce i
comandamenti come atti simbolici, Rosenzweig attribuisce alla
concreta esperienza della teofania rivelata la possibilità di
rendere comprensibile il legame tra la fede e la ragione.
Martin Buber
Ci limiteremo qui
ad affrontare il periodo (1923-1938 ca.) in cui le dissertazioni
su Es 3,14 appaiono spesso nella corrispondenza del filosofo
Buber. I suoi interlocutori privilegiati sono, in questo periodo
(oltre ovviamente a Franz Rosenzweig), Ernst Simon, Gerhard
Scholem, Hugo Bergmann e Hugo von Hoffmanstahl.
Nel corso della
sua collaborazione con Franz Rosenzweig, Buber mostra sempre una
grande stima per le sue osservazioni e per le sue teorie, al
punto che i due filosofi elaborano il seguente piano di lavoro:
mandarsi l'un l'altro traduzioni di una piccola parte di
versetti complessi e valutare insieme la traduzione più consona
con la versione originale del testo biblico.
È datato 5 marzo
1923 il primo lavoro che Rosenzweig ha inviato a Buber in cui
Rosenzweig stesso incontra delle difficoltà nel misurarsi con
Es 3,14 : "Sulla base di quanto illustrato fin'ora, ritengo
che la traduzione più prossima alla Scrittura sia 'Ich werde
dasein als der ich dasein werde' ".
La risposta di
Buber risale al 30 marzo e mostra come le considerazioni su
quella che un giorno sarà la sua filosofia dialogica hanno
avuto un ruolo molto importante nella traduzione di questo
versetto enigmatico. " In Es 3,14 dobbiamo cercare di
tener sempre presente la doppia natura della Divina Promessa
inclusa nella ripetizione del termine "èhyèh": 'Io
sarò presente e rimarrò presente sul tuo cammino [.....].
L'importanza del dialogo è conferita da "ashèr", che
unisce le due promesse e i due interlocutori".
Secondo Buber,
come egli stesso scrive in un passo successivo della stessa
lettera a Rosenzweig, anche se una promessa coinvolge allo
stesso modo colui che la fa e colui che la accetta, il punto
focale di Es 3,14 è rappresentato da D-o e non dall'essere
umano.
L'ermeneutica
tradizionale ritiene comunemente che la risposta di Mosè
significhi solamente questo: conoscere la risposta da dare al
popolo ebraico quando gli Ebrei chiedono il vero Nome di D-o, il
D-o che ha dato il messaggio a Mosè. Così concepito, secondo
Buber, il significato di questo versetto si trasforma in uno dei
punti focali dell'ipotesi kenit. Sulle basi di
quest'ultima, il D-o del popolo ebraico sarebbe solo
l'evoluzione di alcune delle divinità già presenti in
quell'area e la cui principale caratteristica sia
l'appropriazione del nome da parte dei fedeli.
Secondo la
prospettiva di Buber, l'ipotesi è invalidata dal fatto che,
nell'Ebraico biblico (ma anche in quello moderno dei nostri
giorni), la domanda per chiedere il nome di una persona non è
"come di chiami?", "qual è il tuo nome?",
ma "Chi sei tu". Osservando che la richiesta di Mosè
si mostra proprio attraverso questa domanda, è chiaro che Mosè
non si riferisca soltanto al Nome di D-o, ma anche a ciò che
questo Nome nasconde.
In una lettera a
Ernst Simon del 15 novembre 1923, Buber scrive che il
significato più profondo di Es 3,14 è lo stesso che troviamo
in Gn 35,10, nell'episoD-o in cui, dopo il combattimento di D-o con Giacobbe sulla riva del fiume, il Signore ha imposto a
Giacobbe il nome di Israele ("colui che lotta con D-o"). Secondo Buber, la differenza sostanziale tra questi
due episodi dell'Antico Testamento risiede nel fatto che, mentre
in Gn 35,10 troviamo un'imposizione unilaterale, in Es 3,14 ci
troviamo di fronte a un dialogo diretto tra la creatura e il
Creatore. Sorprendentemente, in un certo senso in Es 3,14
l'essere umano "limita" D-o costringendoLo a dare una
risposta da cui D-o non può esimersi.
In questa
lettera, così come in quella datata 4 agosto 1925 a Hugo von
Hoffmanstahl, è evidente come Buber cerchi di collegare Es 3,14
con il Nome Divino e cerchi di definirlo alla luce di Èyèh
ashèr Èyèh.
In questo periodo
Buber ritiene che, così come Es 3,14 ha l'aspetto di una
risposta ad una richiesta, anche il Nome di D-o è un vocativo: Ya-hu.
A partire da questo vocativo (e qui si nota l'influsso di
Rosenzweig), D-o è definito tramite un nome impronunciabile,
che è contemporaneamente più e meno che un nome:
In una lettera a
Hugo Bergmann del 14 settembre 1927, Buber osserva che, dal
momento che il Tetragramma è una risposta a una richiesta - se
lo interpretiamo alla luce di Es 3,14 - è chiaro perché i nomi
propri biblici facciano raramente riferimento, nella loro forma
e nella loro radice, al Tetragramma. L'unica eccezione è
rappresentata dal nome della madre di Mosè, Yochebed (D-o è
grande). Questo nome è quasi una testimonianza di una sorta di
"tradizione familiare", che preparerebbe la strada
all'evento della Rivelazione dell'Essenza Divina. In realtà, è
più attendibile sostenere che, in un periodo di lassismo
religioso, quale era l'epoca della schiavitù sotto il dominio
egiziano, l'intima essenza del Tetragramma sia relegata
nell'oblio. Così, il Tetragramma si trasforma in una risonanza
fonetica vuota.
Come Buber scrive
in una lettera a Rosenzweig del 14 luglio 1925, "In un
certo senso nella memoria collettiva e nella coscienza del
popolo ebraico, Es 3,14 rivela l'ultimo significato del Tetragramma, mostrando la sua essenza più profonda che
persino
i Patriarchi non conoscevano (Es 6,3). La traduzione comune
"Io sono Colui che sono" [Ich bin der ich bin]
fornisce una descrizione dell'Essere Divino come l'Unico Ente o
l'Ente Eterno, vale a dire Colui che si mantiene per sempre
nella Sua essenza [....]. Tuttavia questo tipo di astrazione non
è adatta per una rinascita della vitalità religiosa quale si
è realizzata all'interno del Popolo Ebraico per mezzo di Mosè".
In questa
lettera, Buber sottolinea come hâyâh non indica affatto
una pura essenza metafisica, ma un avvenimento, un "venire
all'esistenza", "essere presente tra questo e
quello", e non indica un'esistenza astratta e trascendente.
Secondo Buber, la
risposta "Io sono Colui che sono" non è adatta ad una
Rivelazione, ma può al massimo essere congeniale a un'essenza
che desidera rimanere misteriosamente nascosta persino alle
persone a cui si presenta. Sotto questa prospettiva "Io
sono Colui che sono" si mostra una tautologia priva
di significato o il cui significato può essere compreso dalla
mente umana. Quale sarebbe il significato della Rivelazione, se
l'intento di D-o fosse quello di rimanere nascosto?
Quando il popolo
Ebraico viene raggiunto dalla notizia della sua imminente
liberazione, esso ha bisogno dell'esperienza della vicinanza di D-o
e non della Sua profonda distanza dal destino e dagli eventi
dell'uomo.
Il Signore è
presente come Colui che era, che è e che sarà presente in modo
tanto trascendente quanto terreno.
Buber osserva che
poco dopo e poco prima della Rivelazione (Es 3,12 e Es
4,12), D-o riafferma la sua presenza accanto a colui che Egli ha
scelto.
Quando Mosè,
timoroso per l'obiettivo affidatogli, chiede a D-o cosa dovrà
dire agli Ebrei, come potrà convincerli, D-o risponde Io sarò
con te. Rinnovando quanto Egli aveva fatto con la promessa a
Isacco, D-o annienta ogni possibile differenza che potremmo
notare tra il D-o dei Patriarchi e la voce che parla a Mosè dal
roveto ardente. Nel corso di questa eccezionale sfida
linguistica, Mosè viene esortato a presentarsi agli Ebrei
come l'inviato di èhyèh. Come Buber osserva in una
lettera ad Ernst Simon del 12 aprile 1932, èhyèh non è
affatto un nome, bensì la forma contratta del verbo hâyâh,
che contiene in se stesso l'ultimo significato della
Rivelazione. D-o non può essere chiamato èhyèh,
o meglio, D-o Si presenta in questo modo solo nel terzo capitolo
dell'Esodo, quando è necessario che gli Ebrei abbiano
l'auto-coscienza di D-o per permetterGli comunicare la Sua
volontà. Quest'auto-coscienza non può essere insegnata da un
trattato teologico, ma può essere sperimentata nella certezza
del dialogo quotidiano col D-o dei Patriarchi.
Secondo la
prospettiva di Buber, il legame tra Es 3,14 e il Nome divino
decreta la nascita di una nuova alleanza, nella quale il
Creatore e la creatura si trovano uniti, anche se a livelli
differenti, nella dimensione sempre aperta del dialogo.
Buber esamina
attentamente l'interpretazione di Es 3,14 anche nel saggio
"Moses" (1945), in cui l'analisi viene condotta
eminentemente su basi storiche. La Rivelazione, che nel saggio Ich
und Du (Io e Te) può sembrare una mera essenza spirituale
su cui si fonda il mondo concreto della responsabilità,
acquisisce una dimensione sempre più terrena nella tappe
evolutive degli studi biblici di Buber. Nel saggio "Moses",
la Rivelazione viene affrontata come una categoria tanto
politica quanto storica, anche se Essa non perde mai né la Sua
ultramondanità né il Suo carattere di legame tra il Creatore e
la creatura . Nell'opera "L'eclisse di D-o",
una raccolta di saggi scritti tra il 1930 e il 1950 (anno in cui
Buber ha già più di settant'anni), questi aspetti particolari
della Rivelazione sono esaminati più attentamente alla luce di
una nuova problematica: il nascondimento di D-o causato dell'Ego
umano.
È vero che Es
3,14 garantisce la presenza di D-o accanto all'essere umano, ma
l'essere umano può sfuggire a questo legame quando vuole.
Desiderando un confronto con un figlio e non con un servo, D-o ha garantito all'essere umano la possibilità di operare una
scelta contraria alla Creazione. D-o ha permesso all'essere
umano di rifiutare la Rivelazione e di rimpiazzarlo con un nuovo
D-o: la Ichheit (che potremmo tradurre col termine Egoità).
Così,
Buber conclude le sue decennali speculazioni su D-o e
sulla Rivelazione sottolineando l'interminabile lotta
dell'essere umano per mantenere vivo il legame con D-o. In ogni
momento, questo legame può essere spezzato a partire da un Ich
(Io) oggettivante ed egoistico, un Ich che non conosce la
dimensione dialogica dell'amore.
Note
- Cfr. Mendelssohn Moses, Gesammelte
Werke, Berlino, Frommann Verlag, 1991, vol. 9/1, pp.
133-134.
- Tale a Colette Sirat e René
Lapassier.
- Cfr. Rosenzweig F.- Buber,
Martin, Die Bibel, Stuttgart, Bibelgesellschaft
Verlag, 1992, p. 189.
- Cfr. Rosenzweig F., Der
Mensch und sein Werk, Dordrecht, Nijhoff Verlag, 1990, 1°
vol., p. 1104.
- Cfr. Jacob Benno, Moses am
Dornbusch, Frankfurt am Main, Källiger Verlag, 1922.
- Cfr. Ibidem, p. 1128.
- Cfr. Buber, M., Briefwechsel
aus sieben Jahrzhenten, Heidelberg
Lambert Schneider Verlag, 1975, 2 vol., p. 78.
- Cfr. Ibidem, p. 89.
- Cfr. Ibidem, p. 147.
- Cfr. Ibidem, p. 195.
- Cfr. Ibidem, p. 161
- Cfr. Ibidem, p. 431.
- Cfr. Buber M., Eclipse of
God, London, Happingen Publ., 1973.
___________________
[Fonte: Morasha.it -
Traduzione dall'inglese per LnR di Antonio Marcantonio]