Per
indicare sinteticamente l’intera realtà dello sterminio nazista
si fa ricorso a termini come Olocausto, Shoà o Auschwitz[1].
La prima è una parola giustamente sempre meno in uso, in quanto
dotata di antiche risonanze sacrali del tutto inadeguate per
indicare un evento in cui le vittime non furono offerte su
nessun altare (anche perché, in caso contrario, Hitler diverrebbe,
di fatto, una specie di involontario sacerdote). Shoà in
ebraico significa «catastrofe», si tratta quindi di un termine «laico»
e, in quanto tale, meno inadeguato per indicare le caratteristiche
estreme assunte dal genocidio nazista. Auschwitz-Birkenau fu il più
grande campo di concentramento e di sterminio costruito dal potere
hitleriano. La rete dei Lager fu molto ampia e articolata; la loro
tipologia fondamentale si distingueva però in due grandi
forme: una miriade di campi e sottocampi disseminati in molte zone
dell’Europa occupata dai nazisti, dove avversari politici,
prigionieri di guerra, partigiani, delinquenti comuni, omosessuali,
testimoni di Geova e così via erano sfruttati, non di rado fino
alla morte, erogando un lavoro da schiavi; e i campi di sterminio di
Treblinka, Belzec, Sobibor, Maidanek, Chelmno (tutti situati
nell’area polacca) costruiti esclusivamente per eliminare gli
ebrei, essi erano quindi letteralmente «fabbriche di morte».
Auschwitz-Birkenau fu l’una e l’altra cosa; con i suoi numerosi
sottocampi fu un sistema produttivo coatto in cui vennero
brutalmente sfruttati ebrei e non ebrei, mentre a Birkenau, oltre al
campo femminile, sorgevano anche le camere a gas e i crematori per
lo sterminio.
Ad
Auschwitz ebrei e non ebrei furono presenti in gran numero; si
trattò quindi di un luogo in cui è impossibile affermare che
tutti gli ebrei si trovassero dalla parte delle vittime
e tutti i non ebrei fossero situati dal lato dei carnefici: il
regime nazista fece vittime tra gli ebrei, tra i cristiani
appartenenti a varie confessioni e tra i seguaci di altre ideologie,
fossero essi russi, polacchi, francesi, italiani, avversari politici
o altro ancora. Tali considerazioni non devono però far credere che
vi sia stata un’uguaglianza di trattamento tra tutti gli
altri e gli ebrei. In realtà l’unico gruppo che può essere
davvero accostato agli ebrei furono gli zingari (circa 250.000
vittime); solo questi due popoli furono infatti colpiti a morte per
il loro semplice esserci, solo a loro fu imputato il delitto di
esistere. Nei loro riguardi si può parlare perciò fondatamente di
«soluzione finale»; fossero neonati o ultranovantenni il
trattamento era lo stesso: l’annientamento (che per queste
categorie non produttive era per di più immediato). Nel corso della
Shoà vennero uccisi un milione e mezzo di bimbi ebrei.
Furono invece solo le circostanze o l’adesione a determinate
ideologie a trasformare gli altri perseguitati in avversari da
sfruttare e, infine, da eliminare.
Non
si può inoltre dimenticare che la stessa condizione di appartenenza
al popolo ebraico dipendeva non già dai sentimenti o dalle
convinzioni degli interessati, bensì da leggi razziali
stabilite arbitrariamente dal regime nazista. Il fatto che una
persona, per qualsiasi motivo, non si identificasse più con
l’ebraismo non significava nulla rispetto ai parametri con cui i
nazisti stabilivano i confini della razza ebraica. In particolare il
cambio di religione, un fattore soggettivo e spirituale, non poteva
giocare nessun ruolo nella pseudodefinizione razzistica di
ebrei proposta dai nazisti.
Per
comprendere il modo in cui Edith Stein (la filosofa e carmelitana
canonizzata nell’ottobre del 1998 da Giovanni Paolo II) si
situa nel cuore del rapporto tra ebrei e cristiani non si può
in alcun modo prescindere dalla sua morte avvenuta ad Auschwitz nel
1942. Questa circostanza oggettiva deve essere vista innanzitutto in
riferimento alla definizione estrinseca di appartenenza a una
supposta razza ebraica elaborata dai nazisti e alla loro
volontà di annientamento di tutti coloro che rientravano in
quel novero. Vista in questo suo versante oggettivo non c’è
quindi alcuna ragione per distinguere la morte di Edith, non solo da
quella della sorella Rosa, anche lei deportata dal carmelo di Echt
e uccisa ad Auschwitz, ma neppure da quella di sei milioni di altri
ebrei. Per quel che riguarda le circostanze della sua morte,
inoltre, non si sa nulla di preciso. Le testimonianze di due
sopravvissuti a quel medesimo trasporto (J. Van Rijk e J. Veffer)
affermano soltanto di aver visto sul marciapiede di
Auschwitz-Birkenau delle donne vestite da religiose e che quel
gruppo superò la selezione, venendo probabilmente annientato subito
dopo. La Stein fu uccisa dai nazisti semplicemente perché, secondo
il loro modo di vedere, ella apparteneva a una razza, quella
ebraica, che non aveva il diritto di vivere. Morendo in tal modo
Edith non fece altro che condividere l’anonimo destino di morte
del suo popolo. Il ruolo assunto dalla vita e dalla morte
della filosofa ebrea e carmelitana Edith Stein in relazione
all’attuale rapporto tra cristiani ed ebrei dipende, dunque, non
già dalle modalità della sua morte, bensì solo dal versante
soggettivo, cioè dalla maniera in cui ella visse sia la propria
appartenenza al popolo ebraico sia la propria conversione al
cattolicesimo e dalla modalità con cui giudicò la persecuzione
nazista.
Non
vi è alcun dubbio che nella parte finale della vita di Edith Stein
nel suo animo albergassero due convinzioni parimenti radicate: da un
lato in lei si stagliava in modo forte e netto il senso di
appartenenza al popolo ebraico, dall’altro parimenti salda
appariva la persuasione che sulla maggior parte del suo popolo
pesasse la colpa di aver rifiutato Gesù e quindi di aver chiuso la
porta alla pienezza della verità. Quest’ultimo convincimento fu
quello tipico di una lunga tradizione antigiudaica cristiana, la
quale naturalmente non condivideva però il primo presupposto: il
grande significato attribuito all’appartenenza ebraica. In Edith
l’ebraicità, intesa anche nel suo senso più concreto e «carnale»,
infatti conservò sempre un significato altamente positivo: «essere
ebrei» scrisse in una lettera all’amica filosofa Hedwig
Conrad-Martius «non significa solo appartenere a un popolo
determinato, a una data nazione: significa appartenere attraverso il
sangue a un popolo sul quale la mano di Dio si è posata per sempre,
un popolo che il Dio Vivente ha fatto suo e che ha segnato con il
suo sigillo». Ciò non toglie che, secondo lei, la vita
del suo popolo fosse contraddistinta dalla colpa.
Secondo la testimonianza di una consorella dopo lo scoppio dei
brutali violenze antiebrariche della cosiddetta «Notte dei
cristalli» (novembre 1938) la Stein avrebbe detto: «È l’ombra
della croce che si abbatte sul mio popolo ! Oh, se adesso
potesse capire! È il compimento della maledizione che il mio popolo
ha invocato su se stesso. Caino deve essere perseguitato, ma guai a
chi tocca Caino».
Per
comprendere come Edith concepì il suo rapporto con la propria
matrice ebraica non vi è via migliore che intendere l’espressione
nel senso più letterale possibile: guardare come visse il legame
con sua madre. La nota scrittrice cattolica tedesca Gertrud von Le
Fort ha affermato a proposito della Stein: «Dai nostri
incontri, ho conservato soprattutto il ricordo dell’amore di Edith
per la madre, di come si preoccupava del suo benessere spirituale:
avrebbe tanto voluto che si facesse cristiana... Non saprei dire se
Dio abbia esaudito questo voto». L’ingresso nel carmelo da
parte di Edith, avvenuto nel 1933, provocò una forte lacerazione
tra lei e la madre a cui pur continuò a restar molto legata. A tal
proposito la scena più patetica avvenne quando la figlia,
subito prima di partire definitivamente per il carmelo, accompagnò
la mamma ottantaquattrenne in sinagoga per celebrare la festa
autunnale delle Capanne; sulla via del ritorno la madre domandò:«”Era
bello il sermone ?” “Certo”. “Si può dunque essere
pii, pur restando ebrei ?” “Certo, se non si conosce
altro”». In questo scambio di battute c’è già tutto: per
Edith solo l’adesione a Cristo completa il proprio essere ebrei.
Tre
anni dopo, quando stava per fare il rinnovamento dei voti, la Stein
avverte nettamente al suo fianco la presenza della madre provando la
sensazione che adesso ella tutto comprenda; qualche ora dopo
verrà a sapere che sua mamma è morta proprio in quello stesso
giorno. In seguito, Edith rifiuterà sempre di dar credito alla
falsa voce che parlava di una conversione in extremis della
madre; sapeva infatti che ella restò, fino all’ultimo, legata
alla sua fede ebraica, ma si dimostrò altresì sicura che la sua
incrollabile fiducia in Dio le avrà «meritato la
misericordia del suo Giudice, presso il quale sarà il mio sostegno
più fedele». Tuttavia la madre, come ogni altro ebreo non credente
in Cristo, ha vissuto, secondo la figlia, una fede incompleta («Certo,
se non si conosce altro»).
Edith
Stein si è chiesta più volte la ragione di questa non accettazione
ebraica di Gesù; in proposito una volta scrisse: «La credenza nel
Messia è praticamente scomparsa oggi negli ebrei, anche in quelli
credenti. E quasi allo stesso modo la fede nella vita eterna. È per
questo che non sono riuscita a far capire a mia madre né la mia
conversione, né il mio ingresso nella vita religiosa».
L’osservazione merita di essere approfondita. Per quanto la
considerazione possa sconcertare qualche cristiano, si può dire che
per lungo tempo fu proprio la fede messianica a costituire il
massimo ostacolo all’accoglimento di Gesù da parte degli ebrei.
Infatti se, secondo la prevalente visione ebraica, il re Messia è
definito come colui che riscatta il popolo ebraico dal suo esilio e
porta il mondo intero all’età messianica, cioè all’epoca in
cui lo shalom (la pace piena e completa) contraddistinguerà
la convivenza umana, è evidente che Gesù non fu il Messia.
Inoltre, la spaventosa guerra che si stava combattendo
nel mondo intero e il dispiegarsi della più terribile tra le
tante persecuzioni abbattutasi sugli ebrei dimostravano
inequivocabilmente quanto il Messia fosse ancora lontano dal
sopraggiungere. L’età messianica per gli ebrei infatti non
riguarda i cieli, ma la terra. Edith Stein invece, scostandosi
dalla visione ebraica, sembra concepire il messianismo in chiave
spirituale vedendolo come partecipazione alla croce e alla
resurrezione di Cristo.
L’adesione
al cristianesimo della Stein è posta eminentemente all’insegna
della croce; nella sua ultima opera Scientia Crucis, pensando
alla via carmelitana, scrive: «L’unione nuziale dell’anima con
Dio è lo scopo per il quale è stata redenta dalla Croce e trovando
il suo compimento nella Croce, l’anima è segnata per l’eternità
dal sigillo della croce». La croce è interpretata da Edith in
senso quasi esclusivamente oblativo e sacrificale, cioè come
partecipazione attiva dell’anima alla redenzione compiuta da
Cristo. Uno degli scopi dell’offerta, vista in chiave
soprannaturale, fu la salvezza del popolo ebraico: «Ho fiducia che,
dall’eternità, mia madre vegli sulla mia famiglia e che il
Signore abbia accettato l’offerta della mia vita per tutti. Penso
in continuazione alla regina Ester, che venne presa dal seno del suo
popolo, per insorgere di fronte al re a favore di questo popolo. Io
sono una piccola Ester, molto povera e molto debole, ma il re che mi
ha scelto è onnipotente e infinitamente misericordioso». Nel suo Testamento
redatto il 9 giugno 1939 aveva scritto che la sua vita e la sua
morte erano offerte a gloria di Dio per il bene della santa Chiesa e
dell’ordine carmelitano e «in espiazione per il rifiuto della
fede da parte del popolo ebreo, affinché il Signore sia
accolto dai suoi e venga il suo regno di gloria».
Tutta
questa spiritualità dell’offerta dipende dal presupposto che «uno
dei pensieri fondamentali di ogni vita religiosa» è «intercedere
per i peccatori attraverso una sofferenza liberamente accettata e
gioiosa, partecipando così alla redenzione del mondo». Si tratta
di una visione teologica che, pur non intaccando in nulla la nobiltà
e la sincerità di quell’oblazione, appare ormai sempre più
lontana dal modo contemporaneo di concepire la fede e ancor più
dalla maniera di guardare al popolo d’Israele la cui sorte - come
ha affermato il concilio Vaticano II - non è in realtà
gravata da nessuna atavica colpa. Anche per questo il pensiero di
Edith Stein non può esserci di aiuto per sviluppare
l’attuale dialogo cristiano-ebraico, il che non toglie che
la sua morte da ebrea e la sua vita da credente in Cristo
siano entrambe accolte e custodite per l’eternità nel
mistero di Dio.
(*)
Docente presso l’Istituto di studi ecumenici S. Bernardino di
Venezia