Edith Stein tra ebraismo e cristianesimo
Piero Stefani (*)

Un grande esempio di ebraicità e di cristianità vissute fino in fondo. La nostra sorella Edith ci dona - insieme alla luminosa testimonianza della sua fine - pagine di alta spiritualità che ci svelano non una doppia appartenenza, ma un naturale compimento, illuminando contemporaneamente molti aspetti delle autentiche radici della fede cristiana.

 Per indicare sinteticamente l’intera realtà dello sterminio nazista si fa ricorso a termini come Olocausto, Shoà o Auschwitz[1]. La prima è una parola giustamente sempre meno in uso, in quanto dotata di antiche risonanze sacrali del tutto inadeguate per indicare un evento in cui  le vittime non furono offerte su nessun altare (anche perché, in caso contrario, Hitler diverrebbe, di fatto, una specie di involontario sacerdote). Shoà in ebraico significa «catastrofe», si tratta quindi di un termine «laico» e, in quanto tale, meno inadeguato per indicare le caratteristiche estreme assunte dal genocidio nazista. Auschwitz-Birkenau fu il più grande campo di concentramento e di sterminio costruito dal potere hitleriano. La rete dei Lager fu molto ampia e articolata; la loro tipologia fondamentale si distingueva però  in due grandi forme: una miriade di campi e sottocampi disseminati in molte zone dell’Europa occupata dai nazisti, dove avversari politici, prigionieri di guerra, partigiani, delinquenti comuni, omosessuali, testimoni di Geova e così via erano sfruttati, non di rado fino alla morte, erogando un lavoro da schiavi; e i campi di sterminio di Treblinka, Belzec, Sobibor, Maidanek, Chelmno  (tutti situati nell’area polacca) costruiti esclusivamente per eliminare gli ebrei, essi erano quindi letteralmente «fabbriche di morte». Auschwitz-Birkenau fu l’una e l’altra cosa; con i suoi numerosi sottocampi fu un sistema produttivo coatto  in cui vennero brutalmente sfruttati ebrei e non ebrei, mentre a Birkenau, oltre al campo femminile, sorgevano anche le camere a gas e i crematori per lo sterminio.

Ad  Auschwitz ebrei e non ebrei furono  presenti in gran numero; si trattò quindi di un luogo in cui è impossibile affermare che tutti gli ebrei si trovassero  dalla parte  delle vittime e tutti i non ebrei  fossero situati dal lato dei carnefici: il regime nazista fece vittime tra gli ebrei, tra i cristiani appartenenti a varie confessioni e tra i seguaci di altre ideologie, fossero essi russi, polacchi, francesi, italiani, avversari politici o altro ancora. Tali considerazioni non devono però far credere che vi sia stata un’uguaglianza di trattamento  tra tutti gli altri e gli ebrei. In realtà l’unico gruppo che può essere  davvero accostato agli  ebrei furono gli zingari (circa 250.000 vittime); solo questi due popoli furono infatti colpiti a morte per il loro semplice esserci, solo a loro fu imputato il delitto di esistere. Nei loro riguardi si può parlare perciò fondatamente di «soluzione finale»; fossero neonati o ultranovantenni il trattamento era lo stesso: l’annientamento (che per queste categorie non produttive era per di più immediato). Nel corso della Shoà vennero uccisi  un milione e mezzo di bimbi ebrei. Furono invece solo le  circostanze o l’adesione a determinate  ideologie a trasformare gli altri perseguitati in avversari da  sfruttare e, infine, da eliminare.

Non si può inoltre dimenticare che la stessa condizione di appartenenza al popolo ebraico dipendeva  non già dai sentimenti o dalle convinzioni degli interessati, bensì da leggi razziali  stabilite arbitrariamente dal regime nazista. Il fatto che una persona, per qualsiasi motivo, non si identificasse più con l’ebraismo non significava nulla rispetto ai parametri con cui i nazisti stabilivano i confini della razza ebraica. In particolare il cambio di religione, un fattore soggettivo e spirituale, non poteva giocare nessun ruolo nella pseudodefinizione razzistica  di ebrei proposta dai nazisti.

Per comprendere il modo in cui Edith Stein (la filosofa e carmelitana canonizzata nell’ottobre del 1998  da Giovanni Paolo II) si situa  nel cuore del rapporto tra ebrei e cristiani non si può in alcun modo prescindere dalla sua morte avvenuta ad Auschwitz nel 1942. Questa circostanza oggettiva deve essere vista innanzitutto in riferimento alla definizione estrinseca di appartenenza a una supposta  razza ebraica elaborata dai nazisti e alla loro volontà di annientamento  di tutti coloro che rientravano in quel novero.  Vista in questo suo versante oggettivo non c’è quindi alcuna ragione per distinguere la morte di Edith, non solo da quella della sorella Rosa, anche lei deportata dal carmelo di Echt  e uccisa ad Auschwitz, ma neppure da quella di sei milioni di altri ebrei. Per quel che riguarda  le circostanze della sua morte, inoltre, non si sa nulla di preciso. Le testimonianze di due sopravvissuti a quel medesimo trasporto (J. Van Rijk e J. Veffer) affermano soltanto di aver visto sul marciapiede di Auschwitz-Birkenau delle donne vestite da religiose e che quel gruppo superò la selezione, venendo probabilmente annientato subito dopo. La Stein fu uccisa dai nazisti semplicemente perché, secondo il loro  modo di vedere, ella apparteneva a una razza, quella ebraica, che non aveva il diritto di vivere. Morendo in tal modo Edith non fece altro che condividere l’anonimo destino di morte del suo popolo. Il  ruolo assunto dalla vita e dalla morte della filosofa ebrea e carmelitana Edith Stein in relazione all’attuale rapporto tra cristiani ed ebrei dipende, dunque, non già dalle modalità della sua morte, bensì solo dal versante soggettivo, cioè dalla maniera in cui ella visse sia la propria appartenenza al popolo ebraico sia la propria conversione al cattolicesimo e dalla modalità con cui giudicò la persecuzione  nazista.

Non vi è alcun dubbio che nella parte finale della vita di Edith Stein nel suo animo albergassero due convinzioni parimenti radicate: da un lato in lei si stagliava  in modo forte e netto il senso di appartenenza al popolo ebraico, dall’altro parimenti salda appariva la persuasione che sulla maggior parte del suo popolo pesasse la colpa di aver rifiutato Gesù e quindi di aver chiuso la porta alla pienezza della verità. Quest’ultimo convincimento fu quello tipico di una lunga tradizione antigiudaica cristiana, la quale naturalmente non condivideva però il primo presupposto: il grande significato attribuito all’appartenenza ebraica. In Edith l’ebraicità, intesa anche nel suo senso più concreto e «carnale», infatti conservò sempre un significato altamente positivo: «essere ebrei» scrisse in una lettera all’amica filosofa Hedwig Conrad-Martius «non significa solo appartenere a un popolo determinato, a una data nazione: significa appartenere attraverso il sangue a un popolo sul quale la mano di Dio si è posata per sempre, un popolo che il Dio Vivente ha fatto suo e che ha segnato con il suo sigillo».  Ciò non toglie che,  secondo lei, la vita del suo  popolo  fosse contraddistinta dalla colpa. Secondo la testimonianza di una consorella dopo lo scoppio dei brutali violenze antiebrariche della cosiddetta «Notte dei cristalli» (novembre 1938) la Stein avrebbe detto: «È l’ombra della croce che si abbatte sul mio popolo ! Oh, se adesso potesse capire! È il compimento della maledizione che il mio popolo ha invocato su se stesso. Caino deve essere perseguitato, ma guai a chi tocca Caino».

Per comprendere come Edith concepì il suo rapporto con la propria  matrice ebraica non vi è via migliore che intendere l’espressione nel senso più letterale possibile: guardare come visse il legame con sua madre. La nota scrittrice cattolica tedesca Gertrud von Le Fort  ha affermato a proposito della Stein: «Dai nostri incontri, ho conservato soprattutto il ricordo dell’amore di Edith per la madre, di come si preoccupava del suo benessere spirituale: avrebbe tanto voluto che si facesse cristiana... Non saprei dire se Dio abbia esaudito questo voto».  L’ingresso nel carmelo da parte di Edith, avvenuto nel 1933, provocò una forte lacerazione tra lei e la madre a cui pur continuò a restar molto legata. A tal proposito la scena più patetica  avvenne quando la figlia, subito prima di partire definitivamente per il carmelo, accompagnò la mamma ottantaquattrenne in sinagoga per celebrare la festa autunnale delle Capanne; sulla via del ritorno la madre domandò:«”Era bello il sermone ?” “Certo”. “Si può dunque essere pii, pur restando ebrei ?” “Certo, se non si conosce altro”». In questo scambio di battute c’è già tutto: per Edith solo l’adesione a Cristo completa il proprio essere ebrei.

Tre anni dopo, quando stava per fare il rinnovamento dei voti, la Stein avverte nettamente al suo fianco la presenza della madre provando la sensazione che  adesso ella tutto comprenda; qualche ora dopo verrà a sapere che sua mamma è morta proprio in quello stesso giorno. In seguito, Edith rifiuterà sempre di dar credito alla falsa voce che parlava di una conversione in extremis  della madre; sapeva infatti che ella restò, fino all’ultimo, legata alla sua fede ebraica, ma si dimostrò altresì sicura che la sua incrollabile fiducia in Dio le avrà «meritato  la misericordia del suo Giudice, presso il quale sarà il mio sostegno più fedele». Tuttavia la madre, come ogni altro ebreo non credente in Cristo, ha vissuto, secondo la figlia, una fede incompleta («Certo, se non si conosce altro»).

Edith Stein si è chiesta più volte la ragione di questa non accettazione ebraica di Gesù; in proposito una volta scrisse: «La credenza nel Messia è praticamente scomparsa oggi negli ebrei, anche in quelli credenti. E quasi allo stesso modo la fede nella vita eterna. È per questo che non sono riuscita a far capire a mia madre né la mia conversione, né il mio ingresso nella vita religiosa». L’osservazione  merita di essere approfondita. Per quanto la considerazione possa sconcertare qualche cristiano, si può dire che per lungo tempo fu proprio la fede messianica a costituire il massimo ostacolo all’accoglimento di Gesù da parte degli ebrei.  Infatti se, secondo la prevalente visione ebraica, il re Messia è definito come colui che riscatta il popolo ebraico dal suo esilio e porta il mondo intero all’età messianica, cioè all’epoca in cui lo shalom (la pace piena e completa) contraddistinguerà la convivenza umana, è evidente che Gesù non  fu il Messia. Inoltre, la  spaventosa guerra  che si stava combattendo nel mondo intero e il dispiegarsi della più terribile  tra le tante persecuzioni abbattutasi sugli ebrei  dimostravano inequivocabilmente quanto il Messia fosse ancora lontano dal sopraggiungere. L’età messianica per gli ebrei infatti non riguarda i cieli, ma la terra. Edith Stein invece, scostandosi  dalla visione ebraica, sembra concepire il messianismo in chiave spirituale vedendolo come partecipazione alla croce  e alla resurrezione di  Cristo. 

L’adesione al cristianesimo della Stein è posta eminentemente all’insegna della croce; nella sua ultima opera Scientia Crucis, pensando alla via carmelitana, scrive: «L’unione nuziale dell’anima con Dio è lo scopo per il quale è stata redenta dalla Croce e trovando il suo compimento nella Croce, l’anima è segnata per l’eternità dal sigillo della croce». La croce è interpretata da Edith in senso quasi esclusivamente oblativo e sacrificale, cioè come partecipazione attiva dell’anima alla redenzione compiuta da Cristo. Uno degli scopi dell’offerta, vista in chiave soprannaturale, fu la salvezza del popolo ebraico: «Ho fiducia che, dall’eternità, mia madre vegli sulla mia famiglia e che il Signore abbia accettato l’offerta della mia vita per tutti. Penso in continuazione alla regina Ester, che venne presa dal seno del suo popolo, per insorgere di fronte al re a favore di questo popolo. Io sono una piccola Ester, molto povera e molto debole, ma il re che mi ha scelto è onnipotente e infinitamente misericordioso». Nel suo Testamento redatto il 9 giugno 1939 aveva scritto che la sua vita e la sua morte erano offerte a gloria di Dio per il bene della santa Chiesa e dell’ordine carmelitano e «in espiazione per il rifiuto della fede da parte del  popolo ebreo, affinché il Signore sia accolto dai suoi e venga il suo regno di gloria».

Tutta questa spiritualità dell’offerta dipende dal presupposto che «uno dei pensieri fondamentali di ogni vita religiosa» è «intercedere per i peccatori attraverso una sofferenza liberamente accettata e gioiosa, partecipando così alla redenzione del mondo». Si tratta di una visione teologica che, pur non intaccando in nulla la nobiltà e la sincerità di quell’oblazione, appare ormai sempre più lontana dal modo contemporaneo di concepire la fede e ancor più dalla maniera di guardare al popolo d’Israele la cui sorte - come ha affermato il concilio Vaticano II - non  è in realtà  gravata da nessuna atavica colpa. Anche per questo il pensiero di Edith Stein non  può esserci  di aiuto per sviluppare l’attuale dialogo cristiano-ebraico,  il che non toglie che la sua morte da ebrea e la sua vita da credente in Cristo siano entrambe  accolte e custodite per l’eternità nel mistero di Dio.

(*) Docente presso l’Istituto di studi ecumenici S. Bernardino di Venezia 


[1] Cfr.  A. V. Sullam Calimani, I nomi dello sterminio, Einaudi, Torino 2001.

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