Il vaticanista del «Giornale», l’ottimo Andrea Tornielli,
ha confessato recentemente di
non riuscire a capire, pur avendoci riflettuto a lungo, le ragioni del
progressivo irrigidimento dell’ebraismo italiano (o almeno di una parte
dei suoi rappresentanti) nei rapporti con la Chiesa cattolica: tanto più
di fronte a un papa come Benedetto XVI, che «più dei suoi predecessori
ha riflettuto e scritto sul legame imprescindibile e non assimilabile a
quello di altre religioni che unisce ebrei e cristiani».
La nuova versione in latino della
preghiera del venerdì santo
Et pro
Judaeis non sembra costituire un salto di qualità rispetto a quella
presente nel c.d. messale di Paolo VI, né il giudizio attuale della
Santa Sede sulla politica dello Stato di Israele appare più freddo e
distaccato rispetto al passato: anzi, semmai, sembra vero il contrario.
Dopo lo scritto di Tornielli, si è avuta la vicenda della remissione
della scomunica ai vescovi lefebvriani, fra i quali uno risulta aver
fatto affermazioni negazioniste: vicenda che è stata evidentemente
gestita in modo tutt’altro che perfetto da parte dei più diretti
collaboratori di Benedetto XVI, ma sospettare che essa comporti una
qualche tolleranza per opinioni di quel tipo risulta evidentemente una
forzatura polemica. Insomma per Tornielli, le ragioni di questo
irrigidimento restano un «mistero».
Devo dire che non proprio self-evident, per non pochi aspetti, sono
apparse anche a me, che pure questo irrigidimento avvertivo nell’aria
già da qualche mese.
Ho cercato di ragionarci sopra, seguendo gli articoli dello stesso
Tornielli e di alcuni altri che reputo affidabili (nel bombardamento
mediatico a cui siamo quotidianamente sottoposti dobbiamo pur fare delle
scelte) e sono giunto a formulare alcune ipotesi meno legate alla
contingenza: qualunque fondamento esse abbiano, sono comunque ispirate
dal massimo rispetto e dalla consapevolezza, viva anche in un quidam de
populo come chi scrive, dell’importanza decisiva, nei nostri anni, di un
rapporto positivo e fecondo fra ebraismo e cristianesimo.
Spunti interessanti sono stati forniti da alcuni commentatori: il priore
di Bose, Enzo Bianchi, uno dei pionieri dell’ecumenismo e del dialogo
con l’ebraismo, ha ribadito sulla «Stampa»
l’origine scritturale delle preghiere del venerdì santo e ha escluso che
ad esse sia sotteso un intento o un’aspirazione conversionistica.
Sul «Foglio»
Giorgio Israel ha ipotizzato un’alleanza in
funzione anti-ratzingeriana fra alcuni settori
dell’ebraismo italiano e frange del cattolicesimo progressista: non a
caso l’articolo del rabbino veneziano Elia Enrico Richetti (quello che
ha dato definitiva visibilità alla vertenza) è stato ospitato sul
mensile «Popoli», la rivista missionaria dei gesuiti italiani.
Il padre
David M. Jaeger ci ha ricordato
che l’ebraismo non ha una «gerarchia», e «i rabbini non sono né
sacerdoti né, molto meno, “vescovi”, ma sono piuttosto periti e docenti
della Torah e delle leggi religiose, autorevolissimi certo all'interno
di questa sfera, ma quando si esprimono su altre materie, non
manifestano che i loro giudizi personali, da rispettare certamente
sempre, ma non da ritenere proclami che impegnano l'intera collettività,
e meno ancora collettività diverse da quelle rispettivamente da loro
servite».
Anche Sandro Magister ha ipotizzato che alcuni aspetti della vicenda
rinviino a problemi interni all’ebraismo italiano e a una sorta di
“arroccamento” che caratterizzerebbe alcuni suoi esponenti, come il
rabbino capo di Roma, Di Segni, che «ha inaugurato una dirigenza del
rabbinato in Italia meno laica e più identitaria, più osservante di riti
e precetti, e di conseguenza più conflittuale col papato sul versante
religioso».
Credo anch’io – lo dico subito – che le scelte recenti dei rabbini
italiani rispondano a una logica difensiva. Ma di che e rispetto a chi?
Per farmi capire, ricorro nella maniera più rozza e schematica ad alcuni
strumenti della sociologia delle religioni. Si può dire che anche quello
religioso sia una sorta di “mercato” in cui – in determinati contesti –
si incontra una domanda e un’offerta. Qual è l’offerta dell’ebraismo
italiano in questo momento? O meglio, come si presenta, da un punto di
vista religioso, di fronte a quella parte di opinione pubblica che è
sensibile a queste problematiche? Sono consapevole – sia detto una volta
per tutte – dell’immensa ricchezza della tradizione religiosa e della
cultura che circola nel nostro ebraismo: mi chiedo solo quale percezione
esso offra di sé all’italiano medio, che cerchi di orientarsi
nell’«offerta religiosa» dei nostri giorni. Credo che si caratterizzi
per due punti: la memoria continua e dolente della Shoah e il sostegno
“politico” e valoriale allo Stato d’Israele. Si tratta di due problemi
fondamentali e tale impegno gli fa onore.
Ma sono emerse nel mondo d’oggi molte altre sfide a cui l’uomo
contemporaneo, soprattutto se religiosamente orientato, cerca di dare
una risposta: quelle della bioetica, della sessualità in tutte le sue
forme, dell’aborto, della famiglia “naturale” e di quelle alternative,
del problema dei confini della vita, al suo inizio come alla sua
conclusione. Emergono poi vaste problematiche sociali, da quelle
attinenti alla distribuzione delle ricchezze, nella nostra società e a
livello internazionale, a quelle connesse ai rapporti fra le civiltà, le
culture, le religioni. Infine nell’ultimo ventennio, con la crisi della
cultura rivoluzionaria e più in generale dell’approccio ottimistico alla
modernità, è riemerso il problema della “tradizione”, che coinvolge non
solo molte frange di “battezzati”, ma anche – manifestamente – il mondo
ebraico: lo testimonia la parabola biografica di alcuni dei più eminenti
intellettuali ebrei italiani, il cui ebraismo era – quarant’anni fa –
solo ambientale e familiare e che oggi è molto più consapevole e
combattivo.
Mi pare che su questi problemi all’italiano medio (di cui parlavo prima)
non arrivino, da parte del mondo ebraico, delle risposte forti e, quando
arrivano, siano tutt’altro che univoche; e che non pochi dei suoi
rappresentanti avvertano su tali temi la “concorrenza” del pensiero
ratzingeriano. Esso chiede loro – come il Papa ha scritto di recente -
di confrontarsi col cattolicesimo non tanto su (mi si passi
l’espressione) astratti problemi teologici, ma sulle «conseguenze
culturali» delle rispettive fedi religiose e indica, come primo terreno
di confronto, la «crisi contemporanea dell’etica». Su tale terreno –
sulla base del comune retroterra biblico - il confronto potrebbe essere
molto ravvicinato e positivo e non impossibile la formulazione di
risposte ispirate agli stessi valori. Lo conferma l’evidente
feeling che
con le posizioni del Papa dimostrano alcuni di quegli intellettuali
ebrei a cui prima accennavo.
Ho l’impressione che non pochi settori dell’ebraismo italiano guardino
con diffidenza a questo confronto e temano che esso conduca a una
qualche omologazione, non delle due fedi religiose, ma dei corollari
pratici che – in merito alle questioni oggi più avvertite come urgenti –
ne potrebbero discendere. Da qui la tentazione, nella difesa dei propri
spazi, dell’arroccamento e della ripresa di una logica di
differenziazione polemica, le cui risorse sono immancabilmente offerte
da determinati elementi del passato (i “silenzi” di Pio XII, l’antico
conversionismo cattolico, la preghiera del venerdì santo).
© Copyright L'Occidentale, 1° febbraio 2009