Discorso del Rav Riccardo Di Segni
per il centenario della Sinagoga di Roma
Un momento della celebrazione
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Quando circa tre millenni fa il re Salomone costruì il Tempio di Gerusalemme lo inaugurò con una lunga preghiera. È un
testo che fa ancora oggi impressione per la sua forza spirituale, e per la chiarezza con cui pone una domanda
fondamentale. Rivolgendosi a D-o. il re si chiese: "il cielo e i cieli dei cieli non Ti possono contenere, e come mai
potrebbe farlo questo luogo che ho costruito?" (1 Re 8:27).
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È la stessa domanda di ogni fedele monoteista davanti a
qualsiasi tempio che vorrebbe avere la pretesa di limitare o concentrare in un unico luogo Colui che invece è il luogo
del mondo. La risposta di Salomone fu che il suo Tempio era un riferimento, un simbolo, un luogo di attenzione speciale,
di incontro e di comunicazione tra uomo e cielo, tra trascendente e immanente.
Se la domanda se la poneva Salomone per il suo Tempio, unico e sacro, tanto più la domanda è lecita dopo la distruzione
di quel Tempio e del successivo che lo sostituì. Il Talmud (Meghillà 29a) chiamava le Sinagoga della diaspora babilonese
con il nome di miqdash meàt, Santuario in miniatura (l'espressione è in Ez. 11:16); e se questo nome da una parte
conferisce sacralità al luogo, dall'altro ne sottolinea la limitatezza in rapporto a quell’edificio originario di cui
piangiamo la distruzione e per la cui ricostruzione ancora preghiamo.
Ogni Sinagoga propone quindi interrogativi e richieste. Richieste all'uomo perché impari a riconoscere nelle dimensioni
dove vive, nel tempo e nello spazio, la presenza del sacro; che si imponga il dovere di trasformare e rendere speciale una
parte dello spazio che lo circonda, che non può essere tutto uguale; e perché si renda anche conto che il sacro cui fa
riferimento è ben oltre la sua capacità di limitazione e definizione.
Con timore e amore celebriamo oggi il centenario della costruzione di questa Sinagoga, Santuario monumentale ma al tempo
stesso in miniatura, che per la sua collocazione e la sua storia aggiunge interrogativi agli interrogativi e richieste
alle richieste. Sono gli interrogativi che continua a porsi una comunità profondamente radicata nella città dove vive
senza interruzioni da 21 secoli, da quando l'antico Tempio era stato appena restaurato dai Maccabei, e che poi assistette
sgomenta all'arrivo dei prigionieri e degli oggetti sacri portati in trionfo dai Romani che avevano distrutto quel Tempio.
Una comunità che è stata accolta e che poi ha accolto, assorbendo e integrando per secoli diverse ondate di esuli,
l'ultima dalla Libia, 37 anni fa; che è riuscita a sopravvivere dignitosamente a ogni tipo di vessazione e umiliazione.
Questo edificio nasce da una fede indomita che, nel momento in cui venivano a cadere restrizioni secolari, volle
esprimersi con una costruzione simbolica che fosse a tutti evidente nel panorama della città. Ma c'era anche
l'espressione della fiducia nella possibilità di una convivenza pacifica di diversi con pari dignità in una nuova
società. Eppure proprio nel secolo di esistenza di questa Sinagoga la storia si è particolarmente accanita contro questa
comunità e questo luogo, dal fascismo al nazismo al terrorismo palestinese, ogni volta mettendo in discussione le
speranze su cui si basava l'investimento pacifico dei costruttori.
Ma la comunità non solo non si è fermata e arresa, ma ha saputo trovare nuove energie; ha partecipato con tutte le sue
risorse sociali e culturali al progresso dell' Italia repubblicana; ha stretto forti legami di fratellanza con lo Stato
d'Israele; ha avuto negli ultimi anni un'incredibile rinascita culturale e religiosa; ha visto in questo luogo il centro
vitale dove esprimere una voce unitaria nei momenti drammatici e in quelli di gioia; e questo luogo è diventato anche il
riferimento simbolico per l'incontro e il dialogo con altre fedi, iniziando da quella cattolica, e speriamo presto con
quella islamica. Come un secolo fa, è la speranza che guida le iniziative di questa comunità e di questo luogo che la
rappresenta. Malgrado ciò che è successo alla sua ombra, questo luogo è sempre più un riferimento di richiesta vera di
pace, la pace interna che invochiamo, come comanda la tradizione, per questo Stato, la pace per questa comunità, e la
pace per tutti. Come chiedeva Salomone: "ogni preghiera e ogni supplica di ogni uomo..., stenderà le braccia verso
questa casa ...e Tu dal cielo ascolterai" (1 Re 8:38).
Il Midràsh (Jalqut Melakhim 1:6) racconta che le finestre del luogo più sacro del Santuario di Gerusalemme erano
costruite in un modo strano. Di solito le finestre si fanno perché la luce entri dentro la casa. Nel Santuario le
finestre erano fatte al contrario, larghe fuori e strette dentro, in modo che la luce uscisse dall'interno verso
l'esterno. Il mondo ha bisogno di quella luce. Una luce che ancora brilla nei tanti Santuari in miniatura, e che emana
anche da questo luogo. Segno di fede in D-o e di fiducia nell'uomo, di resistenza, ma anche di apertura al mondo. Un
piccolo grande contributo che la parte del popolo d'Israele che vive a Roma offre a questa città, all'Italia e al mondo.
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