Giuseppe
Laras, Rabbino Capo della Comunità ebraica di Milano, in occasione
della celebrazione del 17 gennaio 2004: Giornata dell'Ebraismo
Siamo
qui questa sera, all’uscita del sabato, per celebrare insieme la
giornata dell’ebraismo del 17 gennaio. Già l’anno scorso
abbiamo celebrato con analoga cerimonia questa giornata: è stato un
momento molto emozionante e molto ricco, e quindi vogliamo
proseguire questa esperienza all’insegna di una riflessione che
farà da filo conduttore, e che è: "Il Dio delle benedizioni
nella tradizione d’Israele". Faremo un percorso all’interno
e intorno alla benedizione; speriamo che ci possa aiutare nei nostri
rispettivi cammini, nelle nostre esperienze comuni, nelle nostre
vite, in vista di una sempre maggiore e pacifica collaborazione nel
nome del Dio unico e della pace.
La
Berakhà - benedizione - è un bene universale di cui tutti
abbiamo bisogno. Leggiamo nel libro di Rut che quando Boaz arrivava
nel campo per visitare i suoi mietitori, si rivolgeva loro con: Ha-Shem
‘immakhem - "Il Signore sia con voi!" - e i
mietitori gli rispondevano: "Ti benedica il Signore!".
Abbiamo tutti bisogno di Berakhà. È una parola
importante, ma nasconde un contenuto difficile, di difficile
attuazione. Molti hanno parlato, parlano e parleranno di
benedizione, ma forse sono stati e sono lontani dalla benedizione.
C’è la benedizione che rivolge l’uomo a un altro uomo, c’è
la benedizione che rivolge l’uomo a Dio, e c’è la benedizione
che rivolge Dio all’uomo, al mondo. Sono tutte benedizioni, ma
sono benedizioni diverse, perché sicuramente la benedizione
autentica, sicuramente vera, è la benedizione di Dio. Tutte le
altre sono benedizioni, ma potrebbero essere dei simulacri di
benedizioni, potrebbero non essere portatrici di risultati perché,
se ci mettiamo nell’ottica umana, è molto difficile immaginare un
risultato sicuro, continuo, automatico da parte della benedizione
pronunciata.
È
scritto nel Trattato delle benedizioni del Talmud babilonese
che chiunque goda di qualcosa di questo mondo senza aver detto la
benedizione commette peccato di appropriazione. Il riferimento è a
colui che mangia qualche cosa senza aver recitato la benedizione.
"Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, che hai
creato, che hai fatto…" (a seconda o dei frutti o delle cose
che vengono mangiati). E perché questa affermazione così
categorica? Perché nel momento in cui noi godiamo delle risorse del
mondo dobbiamo subito collegare queste risorse a Colui che le ha
date, al padrone di queste risorse; e quindi, goderne senza aver
benedetto, ringraziato Dio è un qualche cosa che viene definito
come appropriazione indebita.
Ovviamente
il presupposto per la benedizione è la disponibilità a sentire e a
vedere Dio come padrone del mondo, a cui noi dobbiamo un
ringraziamento e una benedizione. È chiaro che ci muoviamo
all’interno del difficile percorso della religiosità: benedire
Dio, avere fede in Dio, sentire Dio, sentirlo vicino anche se è
lontano. Sono dei percorsi molto difficili ma, se condotti bene, ci
portano alla comprensione autentica della benedizione. In fondo,
quando l’uomo benedice l’uomo, intende auspicare che su quella
creatura scenda la grazia di Dio, scenda lo Spirito, scenda la
benedizione di Dio, il consenso di Dio. Ma, dicevo, la vera
benedizione, sicura, autentica, è quella che scende dall’alto,
che scende da parte di Dio nei confronti dell’uomo.
Vorrei,
a proposito di benedizioni umane, attirare la vostra attenzione su
uno strano episodio raccontato nella Torà, nel libro dei Numeri,
che ebbe come protagonista il mago Balaam, che Balak re di Moab
aveva convinto a tentare di risolvere il suo problema, che era
rappresentato dagli ebrei, attraverso la forza contraria alla
benedizione, cioè attraverso la maledizione. In sostanza Balak
aveva pagato Balaam perché distruggesse con la maledizione il
popolo di Israele. Sappiamo che sebbene Balaam, per così dire, ce
la mettesse tutta (anche perché, se avesse fatto quello che il suo
committente richiedeva, ne avrebbe ricavato delle ricchezze),
nonostante i suoi sforzi, invece delle maledizioni uscivano dalla
sua bocca delle benedizioni, delle bellissime benedizioni, tra le più
belle benedizioni che mai su Israele siano state pronunciate. In
alcuni profeti viene ricordato e sottolineato questo stupefacente
evento: il Signore che ha trasformato la maledizione in benedizione.
Ecco,
qui stiamo parlando del confronto fra la benedizione vera e la
benedizione presunta, o addirittura il contrario della benedizione.
C’è un passo del Deuteronomio, al cap. 26, a proposito della
decima (la decima è una parte del prodotto agricolo che gli
agricoltori di Israele ogni terzo anno dovevano devolvere ai leviti,
ai forestieri, agli orfani, alle vedove per sovvenirli). Dopo che
l’agricoltore aveva separato la decima e l’aveva data a chi di
dovere, doveva pronunciare una formula che affermava che lui aveva
fatto secondo la prescrizione che Dio gli aveva comandato, e quindi
continuava: hashqìfa mimmeòn qodshekà min ha-shamàim -
“guarda dalla sede della tua santità, dal cielo, e benedici il
tuo popolo Israele e la terra che ci hai dato". Viene fatto
notare che qui è l’unica volta in cui l’espressione hashqìfa,
che vuol dire "guardare dall’alto verso il basso", è in
senso di Berakhà, positivo e di benedizione. In tutti gli
altri punti della Torà in cui ricorre questa espressione essa è in
senso negativo. Una simile espressione che subito viene in mente è
quella collegata alla contemplazione della distruzione di Sodoma:
allora lo sguardo era dall’alto verso il basso. I Maestri dicono
che l’espressione "contempla, o Signore” (cioè dall’alto
verso il basso) è qui in senso positivo perché si tratta di un
soggetto che ha attuato i suoi doveri, ha eseguito la volontà di
Dio e quindi chiede un segno di consenso da parte della divinità.
Si
chiedono però anche un’altra cosa i Maestri a proposito di questo
verso: "e benedici il tuo popolo e Israele". Bastava dire
“il tuo popolo”; era chiaro che si trattava di Israele. Oppure
“il tuo popolo Israele”; ma non et ‘ammekhà et Israel.
Deve esserci un perché. I nostri Maestri sono curiosi. Essi in
qualsiasi espressione non usuale vedono un segnale che vuole
trasmettere un insegnamento. Ebbene, l’insegnamento è questo:
“benedici il tuo popolo”; il popolo nella sua interezza e
globalità deve essere benedetto. “Israele” vuol dire: anche se
i singoli del popolo non sono tutti osservanti della volontà di
Dio, cioè se sono peccatori. Il popolo è meritevole sicuramente di
benedizione; Israele, tutti individualmente, anche quelli che forse
non la meriterebbero, indicati midrashicamente nel testo stesso come
la “terra”. Dio ama la terra d’Israele. Quindi la benedice nel
suo insieme senza privarla della benedizione, anche se c’è
qualche cosa che può non piacere. La terra è la terra. Così il
popolo è benedetto e i figli di Israele, anche se presentano delle
macchie, sono coinvolti comunque nella benedizione. La benedizione
è qualcosa che aiuta a colmare i limiti e i difetti di alcuni
singoli rispetto alla maggioranza della comunità del popolo che
segue la volontà di Dio. Quindi coinvolgimento di tutti nel segno
della benedizione.
Un
punto centrale della Torà in cui si parla espressamente e
solennemente di benedizione è in Numeri (6, 22-27) a proposito
della benedizione sacerdotale. La benedizione che i sacerdoti
dovevano impartire al popolo viene così annunciata: ko tevarekhù
et benè Israel amòr lahèm - " così benedirete i figli
di Israele dicendo per loro”; e incomincia la formula della
triplice benedizione, composta cioè di tre versi. Il primo verso è
composto di tre parole, il secondo di cinque, il terzo di sette.
Quindici parole: è difficile non vedere un riferimento a un qualche
cosa di importante, che, sviluppato nel suo valore numerico, ammonta
a 15, cioè Ja, che vuol dire Dio, il Nome di Dio. Questa
benedizione ci coinvolge e ci avvicina alla presenza di Dio. E come
deve essere espressa e recitata? La benedizione dei sacerdoti deve
essere espressa e recitata solo in quel preciso modo stabilito dalla
Torà. Ci sono altri modi, è vero, per esprimere e porgere la
benedizione - quella dell’uomo verso l’uomo, come abbiamo detto;
ma i sacerdoti tuttavia sono delle persone particolari, che vivono
un rapporto intenso di religione e di particolare vicinanza con la
divinità, e quindi appaiono più qualificati per poter accompagnare
il popolo in questo cammino verso la benedizione. La triplice
formula è rigida:
"Ti
benedica il Signore e ti protegga.
Illumini
il Signore il Suo viso e ti conceda la grazia.
Rivolga
il Signore il Suo viso verso di te e ponga su di te la pace".
Questa
la traduzione della formula della benedizione sacerdotale; come
tutte le traduzioni è una traduzione sommaria; in realtà il testo
della Berakhà dei Cohanim nasconde un’infinità di
preziosi ammaestramenti ed è stata oggetto di attenta riflessione e
analisi. Vediamo di ricavarne qualche insegnamento.
"Ti
benedica il Signore e ti protegga". La prima osservazione è
abbastanza evidente: se il Signore ti benedice, è ovvio che ti
protegge. Quindi se c’è la Berakhà c’è tutto. Allora
ci chiediamo: che cosa vuol dire: "Ti benedica il
Signore"? Vuol dire: ti dia felicità, serenità, prosperità
esterna ed interna; ti dia compiutezza di gioia e di felicità e di
serenità. In questa espressione c’è anche la felicità
materiale, nel senso di serenità per una vita tranquilla. Ma se
c’è tutto questo, che cosa vuol dire "ti protegga"?
Ebbene, alcuni Maestri dicono: attenzione, perché quello stato di
grazia indotto dalla benedizione - "ti benedica" -
potrebbe portare la persona a considerare se stessa come artefice di
questa benedizione, di questa felicità, di questo successo. E
allora è necessario anche che il Signore “ti protegga”. Da che
cosa? Dal tuo istinto malvagio, dalla tentazione maligna a cui tutti
soggiaciamo che insinua in noi: "sei tu il più grande, sei tu
il più bravo, sei tu che crei, sei tu che determini…". Se
subentra questa tentazione e questo atteggiamento, è chiaro che
quella Berakhà iniziale va riducendosi e perdendo forza.
Ecco allora che accanto alla benedizione è necessaria anche
l’assicurazione contro l’istinto malvagio, quello che viene
chiamato “jetzer-harà”. È questa soltanto una piccola
riflessione che può essere fatta su questa prima parte della Berakhà
dei sacerdoti.
"Illumini
il Signore il suo viso e ti dia la grazia". Che cos’è
l’illuminazione del volto di Dio nei confronti dell’uomo? È il “volto” consenziente di Dio, il volto che trasmette felicità
(quando noi guardiamo, sorridendo, una persona mettiamo quella
persona nello stato, nella condizione di aspettarsi qualche cosa di
buono e di positivo da noi). Si può dire anche: “Il Signore
illumini il Suo viso verso di te, trasmettendo al tuo viso un po’
della Sua luce”. Potremmo pensare, in questo contesto di
riflessione sulla “luce” divina, facendo ovviamente le debite
differenze, alla luce che traspariva dal volto di Mosè dopo essere
stato per 40 giorni e 40 notti al cospetto della divinità sul Monte
Sinài: quando discese gli risplendeva talmente il volto, che fu
necessario coprirlo con un velo perché quella luce splendente non
poteva essere vista, contemplata e sopportata. Quindi: che il
Signore ti renda, per così dire, partecipe della sua luce.
Wichunnèkka.
Abbiamo tradotto: “e ti conceda la grazia". Che cosa vuol
dire l’espressione “ti conceda la grazia”? Intanto può voler
dire: ti renda grazioso, simpatico, attraente, degno di affettuosa
attenzione da parte degli altri. Analogamente a quanto capitava a
Giuseppe che, qualunque cosa facesse, riusciva e prosperava, perché
egli suscitava consenso e simpatia. Forse anche perché, nonostante
le sofferenze e le ansie, risplendeva sul suo viso un po’ della
luce di Dio. Ma l’espressione "che il Signore ti conceda la
grazia", può anche voler dire “che faccia posare” (dalla
radice verbale di chanà che significa posarsi, accamparsi),
nel senso che faccia scendere la luce della sua provvidenza su di
te. Provvidenza e luce sono bene collegabili fra di loro.
"Rivolga
il Signore il suo viso verso di te, e ponga su di te la pace".
Assistiamo ad un crescendo: ti benedica, ti protegga, indirizzi il
suo sguardo di luce verso di te, ti riempia di grazia e di luce. E
infine "rivolga il Signore il suo viso verso di te e ponga su
di te la pace”. Che cosa significa: rivolga il Signore il suo viso
verso di te? C’è un momento in cui Dio può non guardarci? Forse
sì, quando noi commettiamo delle colpe, non ci comportiamo bene,
agendo come se Dio non ci vedesse: è quello che i teologi chiamano hastarat-panim,
nascondimento del volto. Qui si prega Dio che voglia orientare il
suo volto in direzione della creatura. E chi è sotto lo sguardo di
Dio, è in pace: "e ponga su di te la pace". La condizione
per vivere integralmente la compiutezza della pace è di essere
sotto lo sguardo di Dio. Sul tema della pace tante sarebbero le cose
da dire. La pace è intanto sicuramente un dono che viene
dall’alto, ma è anche uno strumento nostro per poter accelerare,
aumentare, incrementare la discesa dello Spirito di Dio. C’è una
espressione dei Maestri che suona così: “Chi opera per rendersi
puro riceve un aiuto dal Cielo. Chi opera per rendersi impuro,
riceve anche un aiuto dal Cielo”. In prospettiva dello Shalom
è importante l’iniziativa che assumiamo noi. Non si può rimanere
in posizione statica, limitandoci ad aspettare la grazia dal Cielo.
Noi non conosciamo con esattezza e precisione i misteriosi percorsi
della benedizione e della pace. Sappiamo però, in proposito, due
cose importanti: che esse ci provengono da Dio, ma che anche noi,
nonostante i limiti che ci caratterizzano come creature umane,
abbiamo parte - una parte importante - nella discesa della
benedizione e della pace su di noi.
Il
concetto di pace è un concetto complesso, articolato, difficile. A
questo proposito desidero far osservare che la Berakhà dei
sacerdoti deve essere recitata in ebraico: kò tevarekhù,
“così benedirete i figli di Israele", cioè: in questa
precisa formulazione. A differenza di alcune preghiere del
formulario, essa non può essere pronunciata in altra lingua, che
non sia l’ebraico. La Berakhà dei sacerdoti è qualcosa di
speciale il cui contenuto non può essere reso nella sua sacrale
autenticità in altra lingua. Ne è prova il fatto che mentre il
testo della Torà è accompagnato, in alcune importanti edizioni,
dalla traduzione aramaica (la lingua appresa dai nostri padri in
Babilonia) nel punto della benedizione essa non compare. Almeno per
quanto riguarda la traduzione aramaica di Jonatàn ben Uzziel. E
perché non c’è? Intanto per sottolineare che non ce n’è
bisogno, dato che la benedizione deve ritualmente essere pronunciata
in ebraico. Ma poi anche per un motivo profondo che è questo: dato
che alla fine della Benedizione è invocato lo Shalom, la
pace, e la dimensione dello Shalom è illimitata - nel senso
che nessuno di noi può coglierne l’infinito potenziale - il
termine Shalom non può essere tradotto in nessun’altra
lingua, ma pronunciato e sentito nella sua lingua originale. Questo
ci aiuta a introdurre anche un’altra considerazione.
La
Berakhà dei sacerdoti inizia con la benedizione "ti
benedica il Signore…" e finisce con lo Shalom “e
ponga su di te la pace". Questo sottolinea che - come affermano
i Maestri - il Santo Benedetto non trova veicolo migliore per il
trasporto della benedizione dello Shalom, la pace. Questo
vuol dire che, se vogliamo attenderci abbondante misura di
benedizione dall’alto, occorre che ci provvediamo di un
contenitore di trasporto che è lo Shalom. Se non c’è lo Shalom,
non può arrivare la benedizione. Posizione dinamica e non statica,
quindi, pur lasciando alla Berakhà di Dio tutta la sua
valenza di dono, la sua indipendenza e la sua imperscrutabilità.
Sicuramente nella formazione e nell’avvento dello Shalom
noi sentiamo di avere una parte molto importante. Se non costruiamo
dentro di noi e in mezzo a noi lo Shalom, è difficile
attenderci la Berakhà. La Berakhà ha bisogno dello Shalom.
Senza Shalom la Berakhà rischia di perdersi per
strada e, quindi, di non arrivare fino a noi.
Prima
di concludere vorrei recitare una preghiera molto breve, ma anche
molto intensa, recitata da Salomone nel giorno della inaugurazione
del Tempio di Gerusalemme: "Sia il Signore nostro Dio con noi,
come lo fu con i nostri padri. Non ci lasci e non ci abbandoni
mai". Questa preghiera vorrei che la sentissimo e la
recitassimo con la mente e con il cuore tutti insieme, perché è
una invocazione di benedizione perpetua per tutti noi nel ricordo
dei Padri.
Vorrei
infine leggere una preghiera molto semplice scritta da un grande
maestro dell’ebraismo della fine del ‘700, il Rabbino Nachman di
Breslav, che nella sua vita quotidiana si preoccupava di trasmettere
dei valori che esaltassero la sintesi tra etica e religione. Non si
può essere religiosi in senso verticale soltanto o in senso
orizzontale soltanto. Questo è il messaggio della religione: essere
disponibili e aperti con gli altri come condizione necessaria per
poter entrare in collegamento verticale con Dio.
"Ti
sia gradito, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri, Signore
della pace, re cui la pace appartiene, di porre la pace nel tuo
popolo Israele. E la pace si moltiplichi fino a penetrare tutti
coloro che vengono al mondo. E non ci siano più né gelosie, né
rivalità, né vittorie, né motivi di discordia tra gli uomini, ma
solo amore e pace fra tutti. E ognuno conosca l’amore del suo
prossimo in quanto suo prossimo, cerchi il suo bene, desideri il suo
amore, agogni al suo costante successo al fine di potersi incontrare
con lui e a lui unirsi per parlare insieme e dirsi l’un l’altro
la verità in questo mondo. Un mondo che passa come un batter di
ciglio, come un’ombra, ma non come l’ombra di una palma o di un
muro, ma come l’ombra di un uccello che vola".