Abramo ebbe fede in Dio». Nessun
credente in Gesù che senta declamare questo versetto del
libro della Genesi riesce a fare a meno di pensare a Paolo
che, nel capitolo 4 della Lettera ai Romani, fa di questa
affermazione riferita ad Abramo, la chiave di volta di
tutto il suo insegnamento sulla «giustificazione per sola
fede», come ripeterebbero volentieri i nostri amici «evangelici».
L'affermazione di Paolo tende a rivendicare l'assoluta
sovranità di Dio che rende «beato l'uomo a cui Dio
accredita la giustizia indipendentemente dalle opere» (Rm
4,6). Un'affermazione di portata ecumenica straordinaria,
perché relativizza, alla radice, qualunque pretesa di
legare l'azione di Dio alle «opere» dell'uomo. E, si
noti bene, anche a quelle «opere» rivendicate come
esecuzione di un comando ricevuto espressamente da Dio. Le
«opere» non sono infatti una precondizione per
l'appartenenza a Dio, ma semmai un sigillo di
riconoscimento dell'essere stati scelti da Lui.
Questa assoluta gratuità del dono dell'elezione da parte
di Dio implica anche un avvertimento nei confronti di chi
pensa di poter disporre a suo piacimento del dono ricevuto
da Dio. Nella sua sovrana libertà Dio può infatti
estendere il suo dono anche oltre i confini intravisti o
posti dall'uomo senza che, con questo suo modo di
comportarsi, si riveli ingiusto nei confronti di chi è
stato gratificato prima da Lui, o contraddittorio con ciò
che Lui stesso ha promesso all'uomo. E che il pensiero di
Paolo sia l'eco, su questo punto, del pensiero stesso di
Gesù, lo potremmo verificare dalla finale della parabola
degli operai chiamati a lavorare nella vigna. Là dove il
padrone risponde agli operai chiamati alla prima ora del
giorno che protestano per aver ricevuto lo stesso salario
dato ai chiamati all'ultima ora: «Amico, io non ti faccio
torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro?
Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a
quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie
cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perchè io
sono buono?» (Mt 20,13-15).
Su questa base, e solo su questa, si fonda la convinzione
di tutti i cristiani di essere stati inseriti nella stessa
benedizione promessa da Dio ad Abramo quando in Genesi
12,2-3 dichiarò: «Io farò di te un popolo grande, ti
benedirò, renderò grande il tuo nome e tu sarai
benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò
quelli che ti malediranno: in te saranno benedette
tutte le famiglie della terra».
Da tutto ciò si può ricavare anzitutto che è
inconcepibile la sostituzione di una elezione ad un'altra.
Paolo è chiarissimo su questo punto: «Essi sono
Israeliti e possiedono l'adozione a figli, la
gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le
promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo
la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto
nei secoli. Amen». (Rm 9,1-5). Conseguenza ovvia di
questo dovrebbe essere un estremo rispetto, almeno
altrettanto grande quanto quello di Paolo, nei confronti
dei nostri fratelli maggiori. Inoltre bisognerebbe che i
cristiani si interrogassero con maggiore profondità sul
significato ultimo del pensiero di Paolo quando afferma
che «da essi proviene Cristo secondo la carne». E cioè:
cosa significa tenere presente fino in fondo, nella nostra
teologia e nella nostra vita, che Cristo è
indissolubilmente legato alla «carne» degli Israeliti?
L'incorporazione a Cristo, che i cristiani ricevono con
l'immersione battesimale, comporta un vero e proprio innesto,
attraverso Gesù, nel tronco che proviene dalla
radice santa identificata con Abramo. Dice infatti
Paolo: «Se le primizie sono sante, lo sarà anche tutta
la pasta; se è santa la radice, lo saranno anche i rami.
Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, essendo
oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando
così partecipe della radice e della linfa dell'ulivo,
non menar vanto contro i rami» (Rm 11,16-18).
Dovremmo dedurne che, grazie alla nostra incorporazione
all'ebreo Gesù, noi «Gentili» siamo stati ammessi a far
parte di un albero che è già santo a causa della sua
radice. Ma dovremmo anche chiederci con maggiore profondità
quale sia il rapporto che intercorre fra la «radice santa»
e colui che, provenendo da essa «secondo la carne», «è
sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli». Sarà più
possibile, una volta capito meglio questo, che si possa
fare autentica cristologia cristiana senza chiedersi che
cosa comporti il fatto che Egli sia nato da una radice già
santa prima della sua venuta nella storia, dal momento che
«se le primizie sono sante, lo sarà anche tutta la pasta»?
E cosa comporterebbe questo per i rapporti che noi
cristiani siamo chiamati a stabilire con i rami di questo
albero che rimane «santo», a prescindere dal
riconoscimento o meno, da parte di alcuni suoi rami,
dell'identità ultima di Gesù di Nazaret? Cosa dire
infine della osservazione misteriosissima di Paolo che
dice: «Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei
tu che porti la radice, ma è la radice che porta te»?
Garantire la comunione con Israele «secondo la carne»,
perché santo comunque, a prescindere dalla sua scelta nei
confronti di Gesù di Nazaret, sembra appartenere, per i
cristiani, a quelle realtà misteriose, che abitualmente
si chiamano «sacramenti», nelle quali Dio agisce
comunque con la sua presenza senza necessario riferimento
alla «fedeltà pratica» del ministro umano investito da
Lui. C'è dunque una sacramentalità permanente di
Israele nella Historia salutis?
* priore del monastero di San Gregorio al Celio a Roma
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