IV Giornata Europea della
Cultura Ebraica,
momento di conoscenza e
tolleranza
Edizione 2003 - Soncino (Cremona)
Il bambino
cosmico
Martina
Corgnati
L’uomo nasce rattrappito, una specie di
accento circonflesso nel tessuto purpureo di un universo
in formazione. La sua antichità, la sua necessità di
mimetizzarsi nel corpo denso ed ancora accogliente della
natura è manifesta nella posizione fetale che egli tende
ad assumere. Si tratta di un uomo che imita la natura
anche se la sua condizione di separatezza dalla madre
primordiale risalta già, indiscutibilmente.
La sua manifestazione più saliente
risiede tutta nella schiena raggrinzita, negli arti
minuscoli, ancora non perfettamente sviluppati, nella
membrana placentifera che parzialmente lo avvolge, quasi
a contrapporre un “volto” equipaggiato e privo di
orifizi alla potenziale aggressività del mondo. È
l’homunculus, l’uomo dell’antica luna, che i
piccoli dipinti di Giovanni Bonaldi colgono infatti
sospeso fra gli spazi siderali, rischiarato dalla luce
delle stelle lontane e delle comete che intarsiano il
fondo azzurro persiano, un fondo lucente e misterioso
come di lapislazzulo. Naturalmente, per approfondire
quella definizione un po’ sibillina riportata en
passant poche righe fa, va aggiunto che non si
tratta della luna astronomica, del satellite terrestre,
ma della luna alchemica, un polo statico e fermo,
principio primo da cui le cose prendono origine. Cuore
fermo, la luna, immerso in una sostanza celeste
indistinta, magmatica, polverosa. In principio era il
Caos, recita forse Esiodo. Poi il buio venne separato
dalla luce, la terra precipitò lasciando i corpi gassosi
e liquidi. Presero forma gli astri, ad uno ad uno. Forse
quello fu il momento della luna e dell’uomo primo,
arrotolato in se stesso e nella propria placenta.
Con il farsi dell’uomo si delinea il
linguaggio, a partire anch’esso dal grado più antico e
primitivo: l’immagine simbolica delle caverne
neolitiche, immagine del cavallo e del bue, cioè dei
momenti primi e secondi, quelli della caccia e quelli
della pastorizia e dell’allevamento. L’uomo diventa poco
per volta stanziale ed il linguaggio lo imita, facendosi
sempre più complesso. Nascono i geroglifici, poi le
grandi scritture del mondo accessibile soltanto
attraverso all’archeologia: sanscrito,
assiro-babilonese, lineare A e B. E nascono, poi,
soprattutto l’aramaico, le grandi lingue semitiche, le
lingue scelte per scrivervi i libri di Dio.
È su queste grandi lingue che l’artista
fissa la sua concentrazione e il suo “discorso”
pittorico: un discorso che, non a caso, trae non solo
spunti ed simboli ma, più complessivamente, il proprio
ordine interno dalla tradizione cabalistica, dalle sue
lettere, dal senso e dal valore di ciascuna di loro.
“In principio era il Verbo” dice,
dall’alto, Giovanni. E Giovanni Bonaldi in un certo
senso chiede di accedere a questo inizio, che si ripete
a partire dall’inizio di ogni uomo e di ogni distinto
cammino individuale. Non lo fa attraverso Giovanni o i
Vangeli ma riferendosi alla tradizione ebraica. Forse
perché, nella sostanza, il messaggio di tutte le
tradizioni in fondo si assomiglia; forse perché come lui
stesso ammette, prendere una certa distanza dalla
propria cultura (quella cattolica), gli consente di
prendersi qualche libertà, più psicologica che altro, a
tutto vantaggio della dimensione estetica, della
“licenza poetica”: che in un’opera d’arte è comunque la
prima ad aver voce in capitolo.
Dunque: Bonaldi dipinge le lettere
ebraiche (a volte le modella addirittura in bronzo,
impreziosito da una patina dorata), incastonandole nel
corpo del suo bambino cosmico. L’uomo prima della
nascita fisica è sostenuto dal verbo, dalla parola. Ma
l’effetto è tutt’altro che dolce: il corpo è
letteralmente squarciato dalla lettera che ne suggella e
ne contiene il senso, o meglio “la vocazione” (dire
destino è probabilmente improprio). La pelle non
aderisce all’esserino, all’homunculus celeste e
prenatale, lo avvolge come una guaina di seconda mano. È
la vita, il cammino, il percorso che farà in modo da
stendere, da far aderire questa guaina alle membra
immature.
C’è un corpo, una lettera e un’immensa
sofferenza. Giovanni Bonaldi intende avvolgere di luce
colorata i suoi bambini celesti, e ogni colore di questa
luce corrisponde ad un preciso significato, o meglio ad
un differente grado di impurità, di quell’imperfezione
che, appunto, sarà il cammino della vita a lavare. Ma
quanta drammaticità in questa luce! nel rosso, per
esempio, è difficile sottrarsi alla suggestione di non
scorgere irradiazioni ma macchie e schizzi di sangue,
quel liquido così vitale, quella sostanza così
determinante che unifica in un unico significante la
morte e la nascita, la ferita e il male e la
ri-produzione e il bene. Sangue che colpisce le stelle,
lo smalto del cielo, l’unione corporea di materia e
spirito rappresentata dal feto.
Giovanni Bonaldi imposta due possibili
livelli di lettura: uno, simbolico, accessibile solo
agli iniziati che comprendono il senso delle parole e si
sollevano sopra l’apparenza delle cose; che estraggono,
in altre parole, l’oro dal piombo; l’altro, letterale,
che colpisce l’occhio e l’immaginazione con un
quid di conturbante, di violento, di ferito, di
deforme. L’artista non rinnega né l’uno né l’altro, non
fa mistero né dell’una né dell’altra valenza di queste
sue ultime immagini. L’uomo, infatti, si trova in un
continuo rischio di ammalarsi. Per questo Joseph Beuys
lo ha provvisto di un adeguato, protettivo giubbetto per
avvolgere le parti troppo tenere. Per questo Giovanni
Bonaldi mette in evidenza tutte le difficoltà che si
stagliano dinanzi al nascituro, al corpo penetrato,
lacerato dallo spirito che ne orienta i natali. Non è
detto, infatti, che il percorso si compia e che la
potenzialità venga tradotta completamente in atto.
Infiniti gli accidenti, le complicazioni che possono
interporvisi a partire dal momento in cui le lancette si
muovono e l’orologio del tempo prende avvio. Quindi il
dolore, anche. Quindi l’angoscia, anche; l’angoscia di
un compito impari o, forse soltanto, l’angoscia di
incarnarsi. “Partorirai con dolore…” è la maledizione di
Eva. Ma si può aggiungere che il dolore non è certo
soltanto suo. Psicoanalisi e conoscenze antiche
concordano nel sottolineare l’esistenza del “trauma”
della nascita. In questi esserini celesti c’è il dolore
dell’impotenza, il peso degli abissi da cui la materia
deve risalire per farsi ogni volta creatura.
Non sembri troppo difficile: come
osservava in un recente testo Alberto Fiz, il lavoro di
Bonaldi applica le teorie cabalistiche «n una
complessa relazione che coinvolge anche la componente
cromatica e spaziale». In questo lavoro non c’è nulla di
casuale. Gli infiniti dettagli, le innumerevoli scelte
da cui ogni quadro dipende e acquista la sua forma
definitiva, sono in un certo senso già tutte predisposte
ab origine, sono parti di un tutto cui l’artista
lavora senza fretta e curando tutti gli elementi, non
solo la parte dipinta ma il teatro, metaforicamente
l’altarolo o il contenitore plastico che costituisce
l’insieme di ogni lavoro. L’opera dunque, alla fine, e
senza nulla togliere alla forza del suo impatto visuale
ed alla squisitezza dei suoi principi compositivi, si
presenta come una specie di rebus, e ricca di tutta la
complessità di un pensiero pienamente articolato e
risolto. D’altra parte è questa, è anche questa la forza
dello stile dell’artista, cioè di quel modo di pensare e
di pensare per immagini che col tempo si è fatto
pienamente, compiutamente stile.
Giovanni Bonaldi richiede un’attenzione
profonda da chi si ferma davanti ad un suo lavoro,
richiede un apprezzamento estetico che sappia farsi
lettura e sappia declinare in forme già filosofiche. Il
suo lavoro è un’interpretazione del mondo, qualcosa di
assolutamente infrequente in questa fase della ricerca
artistica dominata da un insieme di linguaggi e di
problemi assai diversi, eclettici, a volte evanescenti,
a volte profondi ma sempre diversi dai suoi. Inutile
forse precisare che il suo isolamento corrisponde ad una
precisa scelta di vita (sta a Serina, sulle Alpi a nord
di Bergamo), di metodo e di pensiero; ad una sostanziale
indifferenza per l’ultima ora del mondo dell’arte che
però non implica affatto un utilizzo del linguaggio e
delle forme in qualche misura arretrato, ingenuo o
tradizionalista.
Ad un osservatore superficiale,
infatti, il linguaggio di Bonaldi può apparire desueto o
persino antiquato oppure legato ad istanze figurative
riproposte qualche anno fa nell’ambito di un certo
espressionismo surreale o surrealismo espressionista,
colto anziché no. Ma non si tratta di questo; la sua
figurazione millimetrica, puntigliosa, esigente e
straniata, che corrisponde ad una ben precisa necessità
narrativa, non è esibizionista, né fine a se stesso; non
è, addirittura, una questione di stile. È una questione
di senso. Attraverso il contatto e l’utilizzo di alcuni
elementi formali, per così dire, prelevati dalla
tradizione pittorica e plastica cui si è accennato (vale
anche la pena di ricordare che Giovanni Bonaldi è stato
allievo di Lucio Del Pezzo), l’artista organizza un
codice di innegabile originalità, per nulla conforme
alle mode e alla tendenze del momento ma ben consapevole
delle molte articolazioni possibili in cui i discorsi,
magari soltanto parzialmente simili al suo, si sono
declinati nel corso del secolo passato; e non solo.
Se non si adotta questo punto di vista,
questa visuale tanto larga e comprensiva, si rimane
perentoriamente tagliati fuori dal lavoro; perché
l’artista si occupa di antropologia. Di cabala. Quindi,
in altri termini, della storia e della posizione
dell’uomo nel cosmo. Non è un caso, per esempio, che
fino ad oggi non gli sia bastata la pittura in sé. Il
dipinto invece, quasi una grande miniatura o la pagina
di un antico libro d’ore, deve essere incastonata fra le
ante di una specie di rilievo che contiene altri
simboli: a volte la lettera (in bronzo), un uovo, del
sangue, dei grafici. Una presentazione ben ordinata,
insomma, di questo dirompente “contenuto” dell’immagine,
un involucro ad uso quasi didattico. È come se Bonaldi
avvertisse il bisogno di spiegare a se stesso che cosa
sta facendo, dove vuole arrivare e predispone quindi,
dapprima, i corollari e gli attributi.
Nel suo insieme dunque, il lavoro si
configura come un organismo complesso da cui ogni
casualità risulta accuratamente bandita; dove ogni
scelta, ogni elemento è inteso in maniera funzionale
alla valorizzazione, o meglio al “respiro” del tutto.
Ogni dettaglio si inserisce in un gioco di rimandi, di
corrispondenze armoniche che vengono a configurare un
vero e proprio “teatro filosofico” i cui fili convergono
tutti nell’invisibile, vale a dire nella mente
dell’artista.
Ma il senso complessivo va oltre, forza
le sue stesse mani. E questo senso complessivo è quello
della pittura; una pittura che appare ormai sempre più
libera da riferimenti (fino a poco tempo fa era scoperto
e dichiarato il rifarsi al lavoro di Giacometti,
soprattutto alle sue celebri figure allungate e
scarnificate) e personale, e proprio in questo carattere
di originalità sempre più capace di imprimersi e
fissarsi nella memoria dello spettatore in termini non
solo cerebrali, non solo razionali, non solo di
“messaggio”, ma con una fortissima carica emozionale.
Perché senza emozione, senza perturbamento, non c’è vera
conoscenza. Ed è questo che Bonaldi si aspetta da un suo
lavoro. Che sia, in un certo modo, un “accadimento”, e
che precipiti la conoscenza oltre un semplice “sistema
di regole” verso la verità stessa.
Una bella sfida alla contemporaneità,
come concludeva Fiz! Senz’altro. Ma non va dimenticato
che per molti secoli la pittura e l’arte hanno aspirato
ad essere proprio questo: una verità visibile.