"Un gran discorso"
        Giorgio Israel, sul Foglio 30 maggio 2006
        
        
            
        
            
            
        
            
         
       
        
Una voce obiettiva e
          positiva sul discorso del Papa ad Auschwitz, nel coro di dichiarazioni
          sdegnate per questa o quella affermazione, per questa o quella
          dimenticanza, ognuno dalla propria ottica, spesso ideologica, incapace
          di cogliere la grandezza del gesto e l'altezza della Preghiera.
 
         
          C'è qualcosa di
          superficiale e di esagerato se, dopo un discorso meritevole di una
          riflessione distaccata e seria, come quello di Benedetto XVI ad
          Auschwitz, inizia una corsa alla dichiarazione sdegnata e
          all'invettiva. Per ragioni di coerenza occorrerebbe tenersene fuori,
          se non fosse che certi argomenti sgangherati - e quindi pericolosi -
          meritano una risposta.
          Sono felice di sapere
          che una persona autorevole e rappresentativa come Marek Edelman abbia
          detto che "è stato un discorso di grande forza sentimentale ed
          emotiva", aggiungendo: "Il Papa è venuto ad Auschwitz, e
          là sulla terra ancora bagnata dal sangue dei morti ha detto che Dio
          allora non era là. Che cosa doveva dire di più?". Sono felice
          di saperlo perché il discorso di Benedetto XVI a me è piaciuto e,
          come a Edelman, è parso "una eccezionale sequenza di emozioni
          per la Memoria di oggi".
          Sono passati pochi
          decenni da quando autorevolissime voci della chiesa auspicavano come
          una "liberazione" la morte di tutti i giudei e
          interpretavano Auschwitz come "conseguenza dell'orribile delitto
          che perseguita il popolo deicida ovunque e in ogni tempo". Oggi
          la massima autorità della Chiesa dice che i nazisti "con la
          distruzione di Israele volevano strappare anche la radice su cui si
          basa le fede cristiana". Misuro questa distanza e sono colpito e
          commosso dallo straordinario passo avanti che è stato compiuto.
          Si è detto che il Papa
          ha parlato troppo del silenzio di Dio e poco delle colpe degli uomini.
          Dai Salmi citati dal Papa al Libro di Giobbe, il tema del silenzio di
          Dio percorre tutto l'Antico Testamento e le riflessioni del pensiero
          religioso ebraico. "Non ti farai idoli davanti alla Mia
          faccia", dice il secondo comandamento; e un midrash lo
          interpreta nel senso: "Quale che sia il volto che Io ti presento,
          per quanto esso possa essere per te incomprensibile e anche terribile,
          tu non dovrai rinnegare la fede in Me". Mille riflessioni sono
          state e possono essere sviluppate su questo tema. Perché mai esse
          escluderebbero il tema delle colpe degli uomini?
          L'insostenibile
          accusa di revisionismo
          Abbiamo letto
          sull'Unità che il Papa si è reso colpevole di revisionismo per non
          aver menzionato le responsabilità collettive del popolo tedesco. Si
          tratta di una critica priva di fondamento sotto il profilo morale e
          storiografico. Dal punto di vista morale, rendere un intero popolo
          responsabile di una colpa collettiva è un'aberrazione in cui
          soprattutto gli ebrei - vittime del mito del deicidio - non possono
          cadere. Essi debbono essere fedeli al precetto del Deuteronomio
          secondo cui nessuno può essere punito se non per il proprio delitto.
          Durante la cena della Pasqua ebraica è d'uso leggere un "rituale
          della rimembranza" della Shoah, in cui si parla di coloro
          che furono sterminati "da un tiranno malvagio" e dagli
          "esecutori del suo perfido progetto". Sembrano le parole del
          Papa. Per quanto estesa sia la responsabilità, essa resta soggettiva
          e non può essere estesa al concetto di responsabilità collettiva di
          un "popolo" , concetto eminentemente razzista.
          Nessuno può
          responsabilmente parlare di responsabilità collettiva del popolo
          italiano per il fascismo, o dei popoli sovietici per i crimini dello
          stalinismo. L'entità del coinvolgimento della popolazione tedesca
          nella Shoah - così come di altre popolazioni in altri crimini
          di massa - è una questione eminentemente storiografica che deve
          essere mantenuta su questo terreno e non può essere usata come una
          mazza per condanne morali. Porre la questione nei termini: "O
          dici che tutti erano responsabili oppure sei corresponsabile
          morale", è un ricatto inaccettabile che uccide ogni possibilità
          di libera riflessione. 
          È assolutamente
          sconcertante che l'attacco a pretese interpretazioni riduttive
          dell'adesione del popolo tedesco al nazifascismo venga da pulpiti che
          per decenni hanno propinato una storiografia secondo cui il fascismo
          in Italia era opera di pochi mascalzoni che erano riusciti a
          irreggimentare un intero popolo che vibrava di sentimenti antifascisti
          repressi dal tallone dei tribunali speciali. 
          Il peso di questa
          storiografia è tale che ancor oggi viene demonizzato come
          "revisionista" Renzo De Felice, per aver messo in luce
          l'entità dell'adesione degli italiani al fascismo. E ci tocca leggere
          uno scritto di Furio Colombo - evidentemente ignaro di quanto in
          Germania sia stato approfondito il tema delle colpe del nazismo, senza
          reticenza e in modo persino spietato, come qui non ci siamo neppure
          lontanamente sognati di fare, viste le recenti vergognose reazioni al
          libro "I redenti" di Mirella Serri, perché ha osato
          ricordare i trascorsi antisemiti di alcuni mostri sacri
          dell'intellettualità italiana - che si permette di parlare di
          "molti cittadini tedeschi" che avrebbero trovato "una
          scorciatoia per non convivere con un passato vergognoso", magari
          "parlando più di Stalin che di Hitler". Di certo, Colombo
          di Stalin ha poca voglia di parlare, visto che riesuma una logora
          retorica su chi ha abbattuto i cancelli di Auschwitz, come se il
          merito tecnico di essere arrivati per primi contasse di più del
          trattamento criminale che Stalin riservò agli ebrei resistenti. 
          È comprensibile
          l'attenzione spasmodica con cui, da parte ebraica, si analizza ogni
          affermazione concernente la Shoah. Ma essa non giustifica un
          atteggiamento che, anziché guardare al senso generale di certe
          affermazioni, indugia su dissezioni meticolose e persino cavillose
          (Quante volte è stata pronunziata la parola Shoah? Perché non
          è stato pronunziato il nome di Hitler?). Del tutto inaccettabile è
          poi pretendere che quando si parla di Shoah sia vietato persino
          accennare a ogni altro crimine di massa: in tal caso, spesso non è
          più l'ebreo che parla ma l'inconsolabile vedova del comunismo.
                  
                     
            
   
            v.anche
          Discorso del Papa
            ad Auschwitz, 28 maggio 2006
          