È un libro intervista.
L’intervistatore è Jean Mouttapa, scrittore e l’intervistata,
Annick, dedica la sua “terza età” ad insegnare ciò che sta lei
stessa rielaborando come proposta di un’antropologia che rimetta l’uomo
nella dinamica del suo compimento divino.
Annick, attratta dagli
studi matematici, per la loro straordinaria coerenza, se ne è poi
allontanata perché, a un livello superiore di questi studi, ha colto
il pericolo di un mondo astratto ed arido. Attraverso successive
esperienze - decisamente di segno opposto - infermiera, psicoterapeuta…ha
sentito rinascere in lei, attraverso incontri significativi, l’esigenza
di capire e di percorrere quella via della “soterìa” che i Greci
indicano giustamente con un solo termine perché sta ad indicare, ad
un tempo, via della salvezza e della salute.
La Bibbia, mal
conosciuta e mal compresa, diviene per lei una fonte inesauribile di
ispirazione, una sorgente che alimenta la vita: una ricerca che non si
scontrerà mai con la povertà di un ragionamento dogmatico o con un
sistema chiuso.
In seguito all’incontro
con padre Kovalevsky, russo, esule in Francia, diventa cristiana
ortodossa. Nell’ortodossia il fedele si alimenta con la tradizione
dei padri della chiesa, di quei grandi maestri fondatori sia per l’occidente
che per l’oriente, senza l’imposizione di un’autorità
centralizzata, detentrice del possesso esclusivo della verità. La
spiritualità ortodossa ritorna alla valorizzazione di tutte quelle
antiche tradizioni, quelle liturgie vecchissime che l’impero
carolingio aveva oscurate per imporre la tradizione liturgica di Roma
e uniformare il mondo cristiano occidentale ( e naturalmente,
dominarlo meglio! ) e che erano state viceversa praticate in Francia
per tutto il primo millennio.
E’ in questo periodo
che Annick, scoprendo tutto il valore della liturgia che è “agire
comune” - molto diversa dalla preghiera personale - sente con
nostalgia come l’occidente abbia perduto i miti, i simboli: il
contatto con il sacro, con la vita, con il cosmo. Sente il fascino del
canto liturgico e come attraverso un coro dell’antica tradizione
musicale cristiana ( non quelle musiche di oggi, tese solo ad esaltare
i buoni sentimenti ), sia possibile avvertire nel proprio corpo quella
vibrazione capace di farci presentire la chiamata a parlare la lingua
divina. E’ nel cuore del corpo che si manifesta la parola.
Molta importanza nella
formazione di Annick ha avuto, ed ha, la conoscenza dell’ebraico che
ha deciso di studiare, ritenendolo essenziale per una comprensione
più piena del giudaismo, del cristianesimo, e quindi della storia
sacra.
La sua grande
intuizione è il significato profondo che racchiude la mistica in
ordine al senso della vita e della trascendenza stessa. Quella
trascendenza che abita in noi e che, paradossalmente, ci è immanente!
Non esistono due poli: il corpo, ricettacolo dello Spirito e lo
Spirito che dall’alto scende in questo. L’immagine divina è l’essenza
prima, fondamento di ogni essere che costruisce le sue strutture più
sottili, fino a quelle del corpo ( “ogni cellula del corpo è
significante dello Spirito che la fa vivere”): l’”uomo sapiens”
è di sua natura “uomo religiosus”!
Non è il corpo che si
“ha” che è importante, ma il corpo che si “è”: il corpo che,
partendo dalla materia prima, noi costruiamo, fino a farlo assurgere
alla sua dimensione spirituale.“ Io sono”, fonda la persona di
ciascuno: è l’immagine divina che possediamo dall’inizio e che
abbiamo il compito di portare ad una sua piena realizzazione. Nella
Genesi si parla della trascendenza che viene meno, che diventa
estranea all’uomo e gli impedisce così di cogliere la sua vera
natura: la trascendenza diventa oggetto dell’intelletto e come tale
svuota la parola stessa.
Riprendendo e
ricollocando nel suo significato originario di universalità il
termine “simbolo” che, etimologicamente significa “ciò che
unisce”, che collega il visibile all’invisibile e quello del “mito”,
che vede come un puzzle di simboli che ci introducono nel più
profondo di noi stessi attraverso una storia che si colloca al di
fuori dello spazio e del tempo, ritorna in ambiente giudaico, nella
tradizione biblica, servendosi dei dati della Qabbalah ebraica, per
spiegare il coinvolgimento del corpo nell’itinerario mistico.
Suggestiva, anche se un
po’ difficile da capire in tutta la sua complessità, è l’analogia
che compie tra l’albero della sefirot ( l’albero della vita ) con
le strutture anatomiche e fisiologiche dell’uomo che la portano ad
affermare che noi siamo programmati per realizzare l’unità ( tra
luce e tenebre; tra bene e male ), simboleggiate dal frutto dell’albero
della conoscenza.
Quello che in estrema
sintesi, con questo suo complesso itinerario, interessante per la
molteplicità degli addentellati su cui poggia e trova significati,
Annick vuole dirci che il corpo parla e che noi dobbiamo ascoltare il
suo linguaggio.
Al centro del messaggio
di questa studiosa, di cui ho esposto i presupposti, troviamo poi una
estesa elaborazione dei problemi della sofferenza, della malattia,
della morte, degli squilibri nella distribuzione dei beni ed afferma,
a questo proposito, che se fossimo davvero coscienti, rimarremmo senza
fiato di fronte a tanta sofferenza, violenza, atteggiamenti criminosi
e di sopruso…perché “non esiste un altrove”, ma tutta l’umanità
è a casa nostra e, di ogni ingiustizia o crimine, noi siamo complici.
Continua il suo scritto
chiedendosi perché leggere la Bibbia. La risposta la trova nella
necessità di non poter occultare le nostre radici: molti cercano
altrove perché non hanno coscienza di ciò che contiene “il qui”.
Nella ricerca delle radici, Annick, pur non sottovalutando l’importanza
dell’analisi e della ricerca storica delle stesse, richiama a non
perdere di vista il “senso” della storia biblica che non sempre è
la sua totale corrispondenza alla realtà.
Si avvale così, per
affermare il senso del messaggio biblico, della tradizione
giudeo-cristiana e ricorda i quattro stadi attraverso cui gli ebrei si
avvicinano alla comprensione della Torah. Il primo definito dalla
parola pshat, cioè semplice, indica una lettura del testo banalizzata
da uno sguardo cosificante: il testo è una “cosa” esterna a colui
che vi si avvicina. In un secondo stadio - zemer - si iniziano a
intuire delle luci che “lampeggiano” e che ci immettono nella
dimensione simbolica, viva e vibrante. La “ricerca” che è il
terzo livello di interpretazione della Torah, significa scrutare,
esaminare, esigere che si viva ciò che essa annuncia. Il significato
dell’annuncio infatti ci diventa chiaro solo nella misura in cui ci
impegniamo nel cammino di una metamorfosi interiore. Sod, è il “segreto”,
il quarto livello di lettura: per percepire l’essenza del segreto,
bisogna essere entrati nella propria identità profonda, perché
questo segreto è il sacro per eccellenza.
Questi quattro livelli
di lettura ci dicono che la profondità della tradizione si rivela
solo in funzione della qualità del conoscente, delle sue morti e
resurrezioni, della sua capacità di amare e della sua capacità di
mantenere in equilibrio le due dimensioni della lettura storica e di
quella simbolica.
È sul piano
esistenziale che Annick si confronta, ed è a questo che continua a
richiamarci, anche nell’ultima parte del suo scritto, dedicata alla
lettura simbolica dei racconti di Israele e degli uomini e delle donne
che hanno popolato la Bibbia. L’originalità della Scrittura, dice
la studiosa, non è “l’invenzione” del monoteismo, ma piuttosto
la sua affermazione: tutti i popoli hanno una conoscenza segreta di
Dio unico, solo che pochi vi accedono.