“Atto commemorativo” della “Nostra
Aetate”, Roma 27 ottobre 2005
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Pubblichiamo
l'autorevole intervento del card. Jean Marie Lustiger in occasione
della solenne commemorazione del 40° anniversario della
Dichiarazione conciliare sui rapporti interreligiosi Nostra
Aetate
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Quale cammino sorprendente abbiamo percorso, ebrei e
cristiani, da oltre mezzo secolo! Il quarantesimo anniversario della
dichiarazione Nostra aetate coincide con il sessantesimo dell'arrivo delle
truppe sovietiche al campo di Auschwitz. Mentre si stanno manifestando
nuove forme di antisemitismo, questa doppia commemorazione ci permette di
misurare l'enorme peso di dolore e di vergogna che grava sulle coscienze
per la memoria della Shoah, «questo crimine inaudito e fino a quel
momento anche inimmaginabile», così come lo ha qualificato Benedetto XVI
alla sinagoga di Colonia.
Qui bisognerebbe fermarsi e rendere grazie per tutti coloro che hanno
lavorato a stabilire tra ebrei e cattolici una nuova relazione di fiducia,
di stima e di rispetto che fonda le vere amicizie. Essi sono numerosi da
una parte e dall'altra. Permettetemi di citarne uno solo, papa Giovanni
Paolo II.
Ho voluto, per questa occasione, riflettere sull'appello che ci ha
lanciato papa Benedetto XVI al termine della sua allocuzione alla sinagoga
di Colonia. Ci invita a «spingersi anche in avanti, verso i compiti di
oggi e di domani» per «dare insieme una testimonianza ancora più
concorde, collaborando sul piano pratico». In effetti è frequente al
giorno d'oggi sentir parlare in Occidente di civiltà «giudaico-cristiana»,
il più delle volte per criticarla e per liberare gli individui dagli
obblighi che essa farebbe pesare sui costumi e sulla società.
Così, osservatori che si presentano lontani tanto dal cristianesimo
quanto dall'ebraismo li mettono entrambi sullo stesso piatto della
bilancia.
Individuare nel cuore della nostra civiltà una Weltanschauung
giudaico-cristiana non soddisferà certo tutti gli ebrei né tutti i
cristiani, ma attesta dall'esterno due fatti essenziali dal nostro punto
di vista: primo, ebrei e cristiani esercitano insieme una responsabilità
rispetto alla civiltà e a tutta l'umanità; secondo, ebrei e cristiani
portano insieme il peso della rivelazione biblica.
In questo quarantesimo anniversario della Nostra
aetate vi propongo di lasciarci interpellare da questo sguardo
esterno e di riflettere sulla nostra comune responsabilità. Che cosa può
e deve apportare al mondo l'incontro degli ebrei e dei cristiani, o
piuttosto la loro riconciliazione, o meglio ancora la loro reciproca
riscoperta in un'epoca in cui si sta delineando una civiltà planetaria
fatta di conflitti e opposizioni, convergenze e scambi, ma anche di
ripiegamenti? Non è senza significato che la 'riscoperta' tra ebrei e
Chiesa cattolica avvenga in questo periodo critico e magnifico di grandi
sconvolgimenti dalle imprevedibili conseguenze.
1. Esiste indubbiamente una convergenza tra ebrei e cristiani - almeno per
quel tanto che sono coerenti con la propria fede - nel fare appello alla
necessità di una morale per il bene della vita della società.
Durante l'ultimo secolo, essi si sono ritrovati concordi nel criticare i
poteri totalitari. Questi ultimi, in quanto «dettavano legge», si sono
eretti ad arbitri del bene e del male. Certo, ogni potere è tentato di
farlo. Ma ebrei e cristiani hanno in comune una visione molto chiara: la
legge che s'impone alla coscienza umana ha una fonte più alta dell'uomo,
il bene non è definito dall'arbitrio dei voleri o delle opinioni ma
s'impone in questo mondo relativo e si propone come un assoluto alle
scelte della libertà; e questa norma irrecusabile nella gestione degli
affari temporali rende la politica una realtà degna della condizione
umana.
La saggezza della legge umana e la sua forza rispetto alle coscienze non
emerge solamente dalle sanzioni che l'accompagnano, ma innanzi tutto dalla
giustizia che essa introduce nei rapporti umani. Questa legge, ogni legge
giusta, giace nel solco, per la maggior parte del tempo invisibile, della
volontà santa di Dio,rivelata sul Sinai. In un modo o nell'altro la legge
trae da Dio un certo carattere sacro che qualifica anche l'uomo a cui è
rivolta.
Questa convinzione comune agli ebrei e ai cristiani si dispiega in un
discorso razionale che ha costituito il corpus del diritto naturale e ha
permesso l'affermazione della dignità inalienabile della persona umana
sulla quale si fondano in definitiva i diritti dell'uomo. Permettetemi di
citare qui un retroscena poco conosciuto della redazione della
costituzione Gaudium et spes del Vaticano II. Per superare le
formulazioni classiche del diritto naturale l'arcivescovo Karol Wojtyla,
sulla scia di Max Scheler, propose la propria prospettiva personalista, in
cui un vescovo riconobbe il pensiero di Martin Buber...
Questa prospettiva etica sulla politica ne contesta dall'interno
l'arbitrarietà; essa mira a chiarire l'esercizio del potere, non a
distruggerlo ma a situarlo come uno dei più nobili servizi da rendere.
Essa è il testimone dell'autentica saggezza che la Bibbia ci dice venire
da Dio. Non c'è qui un altissimo ideale di umanità? Il ruolo di
sentinella e testimone del regno di Dio che hanno sia il popolo ebraico
sia i cristiani sfida e relativizza ogni impero umano. Insieme, ebrei e
cristiani, non abbiamo forse la responsabilità e l'obbligo rispetto
all'intera umanità di questa ragione politica?
Non si trova forse qui la saggezza necessaria alle istituzioni mondiali
fondate per regolare la pace tra le nazioni, ma che i conflitti di forza e
di interesse non lasciano funzionare secondo la giustizia e il diritto (cf.
Gen 18,19), e cioè con efficacia?
2. Questa convinzione ha la propria origine nella rivelazione del Sinai.
Consideriamo come ebrei e cristiani ricevono il dono della Legge o dei
comandamenti. Non spetta a me affrontare la questione centrale
dell'osservanza dei precetti commentata dalle tradizioni rabbiniche.
Mi sembra tuttavia necessario far presente di continuo ai cristiani che
cosa significa l'osservanza di 613 comandamenti. Codificati dalla
tradizione, essi abbracciano la totalità della vita dell'ebreo religioso,
dalla preghiera e dallo studio personale e comunitario a tutti gli altri
ambiti dell'esistenza: morale, vita familiare, professionale ecc. Essi
sono tutti recepiti come provenienti espressamente dalla volontà divina.
Il migliore paragone della vita ebraica così concepita sarebbe, nel
cristianesimo, la vita monastica, benché si tratti qui di una vita
familiare con tutti gli obblighi propri della vita laica...
E per un cristiano? Sorprenderò forse quelli fra voi che conoscono poco
la dottrina cattolica, siano essi cristiani o ebrei, ricordando che,
sostanzialmente, questi comandamenti sono recepiti dai cristiani come
rivelazione divina contenuta nella Bibbia stessa. Sfogliate il Catechismo
della Chiesa cattolica promulgato da papa Giovanni Paolo II. La morale vi
è esposta nel quadro delle dieci parole, all'interno delle quali si situa
la riflessione morale sull'agire umano personale e sociale.
Certo, come discepoli di Gesù differiamo senz'altro sulla maniera
d'intendere e applicare questi comandamenti. Per un cristiano il
commentario autorizzato dei comandamenti è la maniera in cui Gesù li ha
vissuti e in cui ci chiede di vivere. È un'interpretazione determinata da
«Shemà, Israele (...) amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con
tutta l'anima, con tutte le forze» (Dt 6,4; cf. Mt 22,37). La prima
regola dell'agire ricapitola la Legge e i profeti nel comandamento
dell'amore di Dio e dell'amore fraterno (cf. Lv 19,18; Mt 22,39), immagine
e retaggio dell'amore insegnato da Gesù ai suoi discepoli: amatevi «gli
uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12).
Uno sguardo miope potrebbe vedere tra queste due visioni delle differenze
inconciliabili. Uno sguardo più profondo vedrà che la loro fonte è
comune: è in Dio. Le conseguenze sull'agire umano sono analoghe, anche
quando la giustizia e la pace si dispiegano secondo modalità diverse e
sono vissute facendo appello a distinte risorse spirituali. Certo, queste
differenze non sono trascurabili. Esse sono ugualmente essenziali alla
nostra esperienza. Tuttavia la convergenza di ebrei e cristiani permette
loro di affermare con più forza e rispetto la propria missione di
vigilanza e di testimonianza nei confronti dell'umanità.
L'esperienza cristiana ha potuto a volte introdurre una certa
relativizzazione dei comandamenti in nome della carità. Certo, l'amore di
Dio e del prossimo è, per il cristiano come per l'ebreo, la pienezza
della Legge: l'espressione non potrebbe essere più esatta, forte e bella.
Rimane imprescindibile che le esigenze dell'amore siano rigorosamente
comprese e strutturate dal rispetto delle volontà divine. Un incontro
fecondo potrebbe ricordare ai cristiani che essi non possono tralasciare
quello che Dio comanda e, agli ebrei, che il comandamento dell'amore posto
all'inizio dello Shemà anima tutti gli atteggiamenti che ne derivano, nei
rapporti umani come nei riguardi di Dio.
L'universalismo cristiano ha fatto conoscere a tutte le nazioni del mondo,
a volte in una forma secolarizzata, quello che è stato dato a Israele sul
Sinai. Israele ne resta il garante, senza dubbio assieme ai cristiani, per
il bene comune di tutta l'umanità.
3. Dobbiamo dunque ora interrogarci sull'universalismo della rivelazione.
Che significato può avere per l'insieme dell'umanità il riavvicinamento
di ebrei e cristiani?
Evidentemente non voglio rispondere a questa domanda limitandomi a esporre
l'opinione corrente. Alcuni potrebbero temere un risultato disastroso per
la messa a rischio dell'indipendenza e della libertà delle identità
particolari nazionali o religiose. Altri, forse gli stessi, si
domanderanno come delle religioni che la storia ha fino a questo punto
separato possano unire le proprie forze per contribuire a una convergenza
delle culture e delle religioni. In effetti questa relazione con l'insieme
dell'umanità è inscritta nell'origine stessa dell'ebraismo. Ricordate la
benedizione data ad Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie
della terra» (Gen 12,3) e anche l'annuncio profetico secondo cui tutte le
nazioni verranno ad adorare nel suo tempio l'unico Signore del cielo e
della terra.
Per i cristiani, gli ebrei apostoli di Gesù hanno obbedito, non senza
grande fatica, a questo oracolo profetico scoprendo, quasi loro malgrado e
con stupore, che il dono dello Spirito era ugualmente accordato ai pagani.
L'ordine di Gesù dato ai suoi di andare a insegnare a tutte le nazioni (goim)
per formare tra esse dei discepoli che riceveranno il battesimo (cf. Mt
28,19) fa in realtà partecipi i cristiani della speranza ebraica per il
mondo. Nello stesso tempo gli atteggiamenti spirituali e le speranze degli
uni e degli altri restano opposti su questo punto. Infatti, il popolo
ebraico vive una situazione paradossale. Esso rimane un popolo, continua a
rivendicare questo nome. La domanda di sapere se sia un popolo simile agli
altri oppure diverso è stata posta fin dalle origini. Siamo un popolo
differente dalle nazioni, perché formato da Dio per servirlo; e una
nazione simile alle altre allorché reclama un re e un potere come gli
altri popoli. Rimane il fatto che nell'attuale processo di globalizzazione
gli ebrei e le comunità ebraiche disperse nel mondo intero sono, a tutti
gli effetti, parte integrante della diversità delle culture e delle
nazioni, senza che per questo cessi l'appartenenza al 'popolo ebraico'.
Allo stesso modo - si può concludere - il fatto d'essere cristiani
incorpora ciascuna persona e ciascuna comunità nell'esistenza comune
della Chiesa del Messia, presente attraverso i tempi della storia in tutte
le nazioni e in tutte le culture.
Il problema che tento qui di circoscrivere è sollevato dalla
globalizzazione. Può una solidarietà unificare l'intera umanità? E a
prezzo della negazione o dell'oblio delle particolarità considerate fino
a oggi come ricchezze, ma che possono apparire ormai come delle
sopravvivenze o degli ostacoli? Certamente no. Eppure, la responsabilità
affidata dalla parola di Dio agli ebrei e ai cristiani, ciascuno secondo
la propria chiamata e tradizione, è di condurre l'umanità alla
consapevolezza della sua unità e della sua vocazione unica. Ciò riguarda
la sua origine. L'umanità, come dicono le prime pagine della Genesi, è
stata creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26). Esistono,
in seno alla diversità umana, delle sentinelle e dei testimoni della luce
dell'origine, non per imporla ma per aiutare l'umanità a decifrare il
proprio destino.
Gli ebrei sono consapevoli della propria particolarità storica poiché
questa rivelazione ha loro affidato per primi una fede assolutamente
irrevocabile. E nell'esperienza di un popolo forgiato da questa elezione
che la storia santa si è incarnata nella storia umana. La tentazione per
il popolo ebraico è, evidentemente, di chiudersi in questa particolarità
e quindi di vuotarla
della sua portata salvifica universale.
I cristiani sono diventati a propria volta beneficiari di questa primi
genia benedizione poiché, fin dall'origine della Chiesa, nata dagli
ebrei, anche i pagani ottengono di aver parte con loro a questa
benedizione e alla sua promessa. Nel corso dei secoli i cristiani saranno
anch'essi tentati di ricreare dei particolarismi di tipo nazionale o
religioso; essi rischiano di perdere così il senso delle proprie radici,
dell'origine che garantisce la loro speranza.
Ma ebrei e cristiani, rincontrandosi e misurando le differenze reciproche,
possono meglio comprendere quello che è stato loro dato come evidenza
fondatrice e scopo primordiale: rivelare a un'umanità frazionata il
richiamo all'unità più forte e più grande delle sue immense diversità.
4. Evocare tali prospettive non significa minacciare né l'originalità
ebraica né l'identità cristiana. Mi spiego. «La salvezza viene dai
giudei», insegna Gesù alla samaritana nel Vangelo secondo san Giovanni (Gv
4,22). Senza gli ebrei l'universalità cristiana potrebbe dissolversi in
un umanesimo astratto.
L'esperienza cristiana mostra che la diversità delle culture, attraverso
ostacoli e ambiguità a volte considerevoli, può essere rispettata e ogni
cultura esaltata attraverso il riconoscimento dell'unità dell'umanità,
figlia dell'Uno. Senza i cristiani l'ebraismo, portatore della benedizione
promessa a tutte le nazioni, può forse realizzare il proprio compito
senza riassorbirsi nella razionalità universale dei Lumi e senza vuotare
di sostanza la storia che l'ha generato?
Dalla riflessione su queste aporie possiamo ricavare una lezione:
l'incontro tra ebrei e cristiani è necessario a entrambi per comprendere
quel che forse Dio esige da ciascuno di essi. La loro esperienza comune,
al pari delle loro percezioni divergenti della benedizione divina, rivela
il volto dell'unità e della comunione universale radicato nella promessa
fatta ad Abramo, annunciato dai profeti e attestato dalla Chiesa cattolica
così come essa lo crede con umile audacia.
Forse il passaggio vi apparirà forzato, ma esso rende conto della
difficoltà con cui ciascuno di noi, in questo tempo di globalizzazione,
è portato a misurarsi. Per gli ebrei, qual è la loro identità? È
l'identità nazionale israeliana o è quella della diaspora? Su che cosa
si fonda?
Quel che è possibile dire alla luce della fede cattolica è stato
espresso in maniera sorprendente da papa Giovanni Paolo II nella sua
preghiera sulla Umschlagplatz di Varsavia. Ascoltiamola:
'Dio di Abramo, Dio dei profeti, Dio di Gesù Cristo, in te tutto è
contenuto, verso di te tutto si dirige; tu sei il termine di tutto.
Esaudisci la nostra preghiera per il popolo ebraico che, in grazia dei
suoi padri, tu continui a prediligere. Suscita in esso il desiderio sempre
più vivo di penetrare profondamente la tua verità e il tuo amore.
Assistilo perché, nei suoi sforzi rivolti alla pace e alla giustizia, sia
sostenuto nella sua grande missione di rivelare al mondo la tua
benedizione. Che esso incontri rispetto e amore presso coloro che non
comprendono ancora le sue sofferenze, come presso coloro che provano
compassione per le ferite profonde che gli sono state inferte, con il
sentimento del rispetto reciproco degli uni verso gli altri.
Ricordati delle nuove generazioni, dei giovani e dei bambini: che essi
persistano nella fedeltà verso di te in quel che costituisce
l'eccezionale mistero della loro vocazione. Ispirali affinché
l'umanità comprenda, attraverso la loro testimonianza, che tutti i popoli
hanno una sola origine e un solo fine: Dio, il cui disegno di salvezza si
estende a tutti gli uomini. Amen'.
Così, per la fede cattolica l'identità ebraica è fondata sul dono di
Dio, dono irrevocabile, secondo l'espressione di san Paolo, dono che
precede, nella storia, ogni altra determinazione sociologica, culturale o
politica. Questo dono di Dio costituisce, in qualche modo, la vocazione
del popolo ebraico di rivelare al mondo la benedizione divina.
E per quel che riguarda i cristiani, il loro messaggio universale non è
forse solo una maschera dell'imperialismo prima romano e poi occidentale?
Come può espandersi nelle culture del mondo senza per questo perdere la
propria forza e il proprio contenuto? Il problema si pone in maniera acuta
quando i cristiani portano il messaggio biblico, compresa la Torah, a
nazioni come l'Asia e quando queste, alla maniera di Gandhi, pur disposte
ad accogliere i valori di Gesù Cristo come un messaggio di liberazione,
dichiarano di non aver nulla a che fare con la Bibbia poiché hanno le
proprie scritture e storie sacre. Pur esponendosi al rischio di perdersi
perdendo la propria universalità, il cristianesimo non può accettare
questo sradicamento fuori di Israele, vale a dire fuori dall'alleanza,
dalla scelta primigenia di Dio. L'incontro - il legame - degli ebrei e dei
cristiani, nella tensione perenne verso un pieno rispetto reciproco, offre
all'intera umanità il suo volto originale e conforta la sua speranza di
un'unità pacifica.
5. Qual è dunque il fondamento del riavvicinamento tra ebrei e cristiani?
Cosa c'è di comune agli uni e agli altri che giustifica un'alleanza
reciproca?
La risposta è inscritta nella prima pagina del Nuovo Testamento. Esso
comincia con una genealogia, di cui vi cito le prime righe: «Abramo
generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi
fratelli» (Mt 1,2). Queste parole introducono, come ha detto il primo
evangelista, 'la genealogia di Gesù Cristo (Messia), figlio di Davide,
figlio di Abramo» (Mt 1, 1).
Il cristiano riceve dal popolo ebraico la totalità della Scrittura: la
Legge, i profeti e gli altri scritti. Noi la riceviamo per quel che è:
parola di Dio. E questo è vero per tutti i cristiani - protestanti,
cattolici, ortodossi -, quali che siano stati i crimini commessi e le
vicissitudini della storia. Questa Scrittura santa è inseparabile da
coloro a cui è stata rivolta e dalle lingue in cui è stata dapprima
formulata. La Chiesa riceve ognuna di queste parole come ispirate dallo
Spirito di Dio. Vuole rimanere fedele a esse. Anzi, non può
allontanarsene mentre certuni, come Marcione, avrebbero voluto una rottura
radicale che avrebbe eliminato dalla fede dei discepoli di Gesù la
Scrittura biblica, la storia, l'alleanza e l'elezione.
Ma non si è avuta forse una simmetrica riduzione da parte ebraica per
delle ragioni che a noi a volte paiono fin troppo evidenti e che sarebbe
superfluo ricordare? E la legge del silenzio che ha prevalso. Molto spesso
gli ebrei hanno detto, in passato, di non aver affatto bisogno dei
cristiani dal punto di vista religioso.
In effetti in questi atteggiamenti opposti noi riconosciamo la rottura che
si instaurò molto presto davanti al messaggio di Gesù di Nazaret, segno
di contraddizione. Ebrei e cristiani o cattolici condividono
contemporaneamente una radice comune e un conflitto. Ma questo conflitto,
agli occhi stessi dei cristiani, s'inscrive nell'attesa che la storia
umana si compia secondo la volontà di Dio; questo è un orizzonte
familiare anche per il pensiero ebraico.
Gli ebrei, come i cristiani, sono tesi verso una speranza. Essi hanno in
comune la rivelazione ricevuta e trasmessa, che porta il loro sguardo
verso quel compimento i cui tratti sono per ciascuno segnati
dall'esperienza dei secoli, delle culture e dei popoli, per quel tanto che
ciascuno accetta o rifiuta dell'altro. Chi non avverte qui che le tensioni
possono essere tanto più forti e dolorose quanto più i punti d'accordo e
di comunione sono solidi? Dal momento che apparteniamo alla stessa radice
ogni tensione è vissuta come l'insorgere di una ferita, di un rifiuto; ma
può essere anche vissuta nella speranza di una luce sempre più grande.
Oggi, alla luce della storia, senza che il riavvicinamento possa rendere
meno acute le divergenze, l'urgenza dell'appello ricevuto alle origini
obbliga i fratelli separati, il fratello maggiore e il minore, a
rispondere, ciascuno per la parte che gli spetta, alla missione
assegnatagli. Nessuno dei due può adempierla senza l'altro, senza contemporaneamente fare violenza all'altro o penalizzarlo.
L'aspetto attuale dell'umanità anticipa, in modo ancora oscuro e a volte
contraddittorio, la speranza portata dai profeti e proclamata dal Nuovo
Testamento. Sarebbe illusorio e menzognero negare le nostre differenze e
la nostra fede personale al fine di realizzare questa speranza comune.
Ciò sarebbe un errore mortale e in effetti una rinuncia. Piuttosto,
ciascuno è chiamato a progredire nel dovere di giustizia e di pace
assegnatogli dalla Provvidenza.
Il legame comune tra ebrei e cristiani fonda la loro riscoperta reciproca
in questo secolo, garantendo l'opera che essi debbono compiere, pena una
loro mancanza verso l'umanità. Sono in gioco l'equilibrio e la pace nel
mondo.
L'avvenire comune tra ebrei e cattolici non si riduce a limitare il
possibile contenzioso. Non può accontentarsi di una pacifica comprensione
reciproca, e neppure di una solidarietà a servizio dell'umanità. Questo
avvenire richiede un lavoro su quel che è comune, come su quel che
separa, lavoro ormai possibile perché fondato sulla certezza di
un'amicizia voluta da Dio. Che le differenze e le tensioni divengano uno
stimolo per un approfondimento sempre più attento e docile del mistero,
di cui la storia ci costituisce gli eredi indivisi.
Roma, 27 ottobre 2005.
Jean-Marie Lustiger