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Benedetto XVI e il dialogo con gli ebrei

Padri nella fede
di P. Norbert J. Hofmann*

Nel celebrare, lunedì 17 gennaio, la ventiduesima Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, torniamo col pensiero, pieni di gioia, alla visita compiuta da Benedetto xvi nella sinagoga di Roma esattamente un anno fa, visita che ha evidenziato chiaramente la natura delle relazioni esistenti tra ebrei e cattolici. Nel suo incontro con gli ebrei di Roma, il Santo Padre ha espresso profonda stima e sentito apprezzamento: «Con sentimenti di viva cordialità mi trovo in mezzo a voi per manifestarvi la stima e l'affetto che il Vescovo e la Chiesa di Roma, come pure l'intera Chiesa Cattolica, nutrono verso questa Comunità e le Comunità ebraiche sparse nel mondo» (n. 1).

A questa visita del Papa ha fatto riferimento il 13 ottobre 2010 il rabbino di Gerusalemme, David Rosen, quando è intervenuto al Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente per parlare delle relazioni tra ebrei e cristiani in quella regione: «Oggi, le relazioni tra mondo cristiano e popolo ebraico riflettono una benedetta trasformazione dei nostri tempi, possiamo dire senza precedenti storici. Papa Benedetto XVI ha menzionato l'insegnamento del concilio Vaticano ii come punto fermo a cui riferirsi costantemente nell'atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova e significativa tappa».

Nessuno può negare che negli ultimi quarantacinque anni, ovvero dalla promulgazione della dichiarazione Nostra aetate (n. 4), molto è cambiato, in senso positivo, nel dialogo tra ebrei e cattolici. Sicuramente, il sopracitato documento è uno dei testi conciliari che hanno avuto un grandissimo impatto a livello pratico nella dinamica degli sviluppi successivi al concilio (wirkungsgeschichte, storia degli effetti). Tuttavia, le principali affermazioni teologiche della Nostra aetate (n. 4) devono essere ulteriormente esplicitate e adeguatamente approfondite; il loro chiarimento rimane tuttora all'ordine del giorno nelle discussioni a livello accademico. Il fatto che un rabbino abbia preso la parola durante un Sinodo dei vescovi in Vaticano è significativo. Vi è stato comunque un precedente. Nell'ottobre 2008, durante il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio, il rabbino di Haifa, Shear Yashuv Cohen, ha parlato della Parola di Dio nelle Sacre Scritture e nelle Tradizioni degli ebrei. A ciò fa allusione Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini (n. 4), pubblicata nel novembre 2010, quando si riferisce all'intervento del rabbino come a una «preziosa testimonianza».

In un altro punto del documento (n. 43), il Papa sottolinea l'importanza del dialogo con l'ebraismo e il rapporto con esso, affermando: «Traiamo, quindi, il nostro nutrimento dalle medesime radici spirituali. Ci incontriamo come fratelli, fratelli che in certi momenti della loro storia hanno avuto un rapporto teso, ma che adesso sono fermamente impegnati nella costruzione di ponti di amicizia duratura. Desidero riaffermare ancora una volta quanto prezioso sia per la Chiesa il dialogo con gli ebrei. È bene che dove se ne veda l'opportunità si creino possibilità anche pubbliche di incontro e confronto che favoriscano l'incremento della conoscenza reciproca, della stima vicendevole e della collaborazione anche nello studio stesso delle Sacre Scritture».

L'incoraggiamento del Papa s'iscrive all'interno degli sforzi che egli ha compiuto finora nel suo Pontificato a favore del dialogo con l'ebraismo.

Nel libro intervista con Peter Seewald, da poco pubblicato, Benedetto XVI lascia trasparire il suo pensiero nei confronti dell'ebraismo e il suo giudizio sul dialogo. Da parte ebraica, non sembra esserci nessuna critica negativa ufficiale al libro, e questo fatto la dice già lunga. Benedetto XVI riprende la vecchia definizione degli ebrei come «fratelli maggiori» e vi accosta la propria, quella di «padri nella fede», che ritiene spieghi ancora meglio il rapporto tra ebrei e cristiani. Giovanni Paolo II, durante la sua storica visita alla sinagoga di Roma il 13 aprile 1986, si era rivolto agli ebrei come ai «fratelli prediletti», ai «fratelli maggiori». Ma, da parte ebraica, alcune voci avevano criticato questa nuova definizione. Infatti, nella Bibbia il fratello maggiore non sempre ha la meglio; basti ricordare l'esempio di Giacobbe ed Esaù, in cui è proprio il fratello maggiore a non essere prescelto. Benedetto XVI ha dimostrato sensibilità nei confronti di tale critica, preferendo optare per il termine «padri nella fede». Quest'espressione ricorda chiaramente le radici ebraiche del cristianesimo e quindi il fatto che, come cristiani, abbiamo ereditato dai nostri «padri ebraici» la fede nell'unico Dio di Israele e siamo a essi accomunati dalla stessa tradizione religiosa, seppure la interpretiamo in modo nuovo e diverso in forza dell'evento cristiano. Come cristiani, abbiamo in Cristo un'immagine diversa della madrepatria ebraica(1), da cui noi stessi siamo nati. L'ebraismo rabbinico deve la sua esistenza a questa stessa madrepatria, che, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo, ha continuato a evolversi.

Fin dall'inizio, Benedetto XVI ha tenuto a dimostrare che non è possibile considerare il Nuovo Testamento in maniera isolata rispetto a questa madrepatria ebraica e che esiste una profonda unità tra Antica e Nuova Alleanza, entrambe parti della Sacra Scrittura. Nel recente libro-intervista, il Papa ribadisce che, per essere compreso, il Nuovo Testamento deve essere letto insieme all'Antico.

L'approccio di Joseph Ratzinger all'ebraismo è stato sin dall'inizio quello di uno studioso che ha sempre posto la Sacra Scrittura al centro del proprio pensiero, della propria meditazione e della propria azione. Molti studenti dell'allora professor Ratzinger erano dell'avviso che, per conoscere bene la Sacra Scrittura, piuttosto che frequentare le lezioni degli esegeti dell'Antico e del Nuovo Testamento, era preferibile andare alle sue lezioni, ascoltare lui, che è in realtà un teologo di dogmatica e teologia fondamentale.

Nell'intervista con Seewald, Benedetto XVI riconosce di essere stato tanto colpito, come tedesco, dalla sorte degli ebrei durante il Terzo Reich, da aver sempre guardato al popolo di Israele con umiltà, vergogna e amore. Egli parla di un intimo legame di vicinanza affettiva e di comprensione tra Israele e la Chiesa, e quindi di rispetto reciproco per l'altrui identità, e sottolinea che tale convinzione di base è essenziale per l'annuncio della fede cristiana. Alla luce di questo suo atteggiamento benevolente e magnanimo nei confronti dell'ebraismo, non può essere giustificata la critica rivolta a Benedetto XVI circa la nuova formulazione dell'intercessione per gli ebrei per il Venerdì Santo secondo il rito del 1962, né quella mossagli a seguito della revoca della scomunica del vescovo Williamson, negazionista della Shoah. [per la verità, il vescovo è 'riduzionista', non negazionista; il che non sminuisce l'orrore degli eventi di cui si parla, che sono comunque fatti storici e non dogmi di fede tali da giustificare una scomunica - ndR]. Nel libro intervista, Papa Ratzinger parla di queste due crisi nel dialogo ebraico-cattolico e dice chiaramente di essere stato spesso frainteso al riguardo, a volte addirittura intenzionalmente. Egli sottolinea con convinzione che era fuori discussione una rottura del dialogo a causa di queste difficoltà e che nei rapporti con l'ebraismo mondiale non è mai venuta a mancare la fiducia reciproca. Crisi e situazioni difficili fanno parte integrante del dialogo ebraico-cattolico; superarle insieme in maniera costruttiva può soltanto approfondire e consolidare il legame tra ebrei e cattolici. Le crisi sono, in questo senso, il «sale della vita» e devono essere lette nel quadro della cultura ebraica millenaria del confronto-discussione. Spesso, nell'ebraismo, la ricerca della verità è alquanto animata quando si scontrano opinioni diverse, che vengono sempre accostate le une alle altre nella loro ricchezza di sfaccettature; opinioni che quindi si fanno luce vicendevolmente. Nella Chiesa cattolica, la ricerca della verità avviene in maniera molto diversa: come cristiani, sappiamo che Cristo è per noi «la via, la verità e la vita» (Giovanni, 14, 6).

Ebrei e cristiani mirano comunque allo stesso obiettivo quando si tratta dell'impegno a favore della giustizia e della pace nel mondo, come testimonianza del Regno di Dio tra gli uomini. Questo è quanto ha sottolineato lo stesso Benedetto XVI nel discorso sopra menzionato alla sinagoga di Roma: «Con l'esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al regno dell'Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza. In questa direzione possiamo compiere passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della terra» (n. 7-8).

*Salesiano, segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo

(©L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2011)


Nota di Le nostre Radici
(1) In realtà in quanto cristiani, noi non abbiamo una "madrepatria ebraica", che presupporrebbe un'appartenenza legata alla Terra o alla razza, ma un'appartenenza 'teologale' alla Persona del Signore Gesù, nel quale si incarna la pienezza umano-divina della Santissima Trinità

   
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