angolo
    17 gennaio 2008 - XIX Giornata ebraico-cristiana
Roma, Università Lateranense
Mons. Ambrogio Spreafico Rettore della Pontificia Università Urbaniana
La terza delle Dieci Parole
«Non pronunziare il Nome del Signore Dio tuo invano» (Es 20,7)
 






 
Siamo di fronte alle parole del secondo comandamento almeno nella tradizione cristiana da Sant’Agostino in poi, mentre nella Bibbia Ebraica si tratta del terzo comandamento (“La terza delle Dieci Parole”). Il primo afferma l’unicità di Dio, il secondo proibisce le immagini divine e la loro adorazione, mentre il terzo è il nostro secondo comandamento. Tuttavia il computo complessivo dei comandamenti rimane in ambedue le formulazioni quello tradizionale di dieci. Infatti l’ultimo comando, almeno secondo il decalogo di Deut 5, combina gli ultimi due nella formulazione cristiana: IX. “Non desiderare la donna d’altri”; X: “Non desiderare la roba d’altri.”

Il comandamento oggetto della riflessione di quest’anno è stato interpretato abitualmente nell’esegesi tradizionale cattolica in relazione soprattutto alla bestemmia e al falso giuramento. Tuttavia questa interpretazione rappresenta una visione piuttosto restrittiva del senso del testo, come è stato mostrato più esplicitamente dalla teologia più recente. Lo stesso catechismo della Chiesa Cattolica dedica il primo paragrafo di commento al secondo comandamento alla santità del nome di Dio, all’interno del quale si inserisce la proibizione della bestemmia e del falso giuramento.

Nella tradizione biblica, ma in genere nella cultura semitica, il “nome” ha un’importanza che non ha nella nostra cultura ed anche nelle nostre espressioni di fede, nonostante noi pronunciamo spesso il nome di Dio. Nella Bibbia e nella cultura semitica il nome proprio esprime l’identità e la realtà della persona che lo porta o anche di un luogo. Dio dice ad Abramo: “Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abraham, perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò.” (Gen 17,5) In Marco 3 si legge: “Simone, al quale impose il nome di Pietro.” Leggiamo in Genesi 28: “«Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo»…E chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora la città si chiamava Luz.” (Gen 28,17-19) Gli esempi si potrebbero moltiplicare. “Nomen – omen”, titolava la tesi di dottorato di A. Strus difesa al P.I.B negli anni 70, nella quale viene mostrato proprio il valore profondamente evocativo del nome proprio. Per questo nella mia lettura del significato del comandamento darei per scontata l’interpretazione cristiana a cui ho accennato senza ulteriormente soffermarmi sul suo significato. Mi permetto solo di aggiungere che bisognerebbe aggiornare o estendere il suo valore alla bestemmia ancor più grave di chi usa il nome di Dio per uccidere, profanando quel nome che fin dalle origini è solo nome di vita.

L’etica della non profanazione del nome di Dio richiama la necessità di osservare la torà (“insegnamento”) nella sua totalità, come insegnano i saggi di Israele a proposito del terzo comandamento: “Qual è il senso del versetto “Non pronunzierai il nome del Signore Dio tuo invano”? Che tu non devi indossare i filatteri, e rivestirti del tuo Talled, e poi andare a compiere una trasgressione.” (Pesisqta Rabbati 11b)

1. Il nome di Dio. Il nome di Dio secondo la Tanak fu rivelato a Mosè sul Sinai, come racconta il capitolo terzo dell’Esodo. Il nome divino non deve essere pronunciato – almeno così possiamo dire sia avvenuto a partire da un certo periodo del dopo esilio – se non in maniera straordinaria nelle benedizioni sacerdotali del Tempio e dal Sommo Sacerdote nel giorno del Kippur. “Il vero nome di Dio infatti è un mistero”, dice il grande pensatore ebreo Abraham Joshua Heshel. E racconta che una fonte medievale dice che il nome sfuggiva persino al Sommo sacerdote, che pur l’aveva pronunciato, non appena usciva dal tempio (Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Città di Castello 1883, 82-83). Il suo nome è santo, come cantano per tre volte i Serafini in Is 6: “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria.” (Is 6,3) La santità di Dio non esclude, anzi si manifesta proprio mentre Dio si mette in relazione con il profeta, quindi essa non implica una separazione assoluta tra Dio e l’essere umano né comporta allontanamento dell’uomo, nonostante Dio rimanga l’assoluta alterità e trascendenza. Sul significato del nome divino, come fu rivelato a Mosè, si sono cimentati nei secoli sia i commentatori della Bibbia ebraica che gli esegeti cristiani, provando ad entrare in quel misterioso “’ani ‘ehyeh ‘aser ‘ehyeh” di Es 3,14, tradotto dalle nostre Bibbie di solito con “Io sono colui che sono”. Le speculazioni sul nome divino non sono mai mancate e non sarò certo io a porre fine ad esse. Tuttavia, se leggiamo la risposta di Dio a Mosè, che gli chiese il nome, emerge un fatto importante: il testo non sembra interessato a definire il significato del nome, quanto a mettere in evidenza e a descriverne il manifestarsi nella storia del suo popolo. Proviamo a rileggere il testo dal versetto 6

v. 6 Io (sono) il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe...
v.7 Ho visto l’afflizione del mio popolo in Egitto…
v.11 E disse Mosè a Dio: Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire i figli di Israele dall’Egitto?
v.12 Disse: “Perché io sono (‘ehyeh - “sarò”) con te….
v.13 Disse Mosè a Dio: “Quando io giungerò dagli israeliti e dirò loro: «Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi», essi mi diranno: «Qual è il suo nome?» Che dirò loro?”
v.14 Disse Dio a Mosè: “‘ehyeh ‘aser ‘ehyeh” (“sono colui che sono”). Disse: “Così dirai ai figli di Israele: ‘ehyeh mi ha mandato a voi”.
v. 15 Disse ancora Dio a Mosè: “Così dirai ai figli di Israele: «Yhwh Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il suo nome per sempre e questo il suo ricordo di generazione in generazione».”

Il “nome” non è riferito solo a “Io sono colui che sono”, ma anche a “Yhwh Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe…” (v. 15) Quindi nel ripetersi del nome divino emerge chiaramente una certa identità tra l’affermazione centrale, “Sono colui che sono”, e quella iniziale e finale, “Io sono il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe.” Il suo nome è “sono colui che sono”, ma anche il Dio dei padri. Colui che ha mandato Mosè dagli israeliti si identifica con il Dio dei loro padri. Mi sembra che in questi rapporti si esprima l’idea che Dio si manifesta e vive nella storia dei padri, quella che è giunta fino all’Egitto. La possibilità di interpretare il nome ‘ehyeh ‘aser ‘ehyeh sia in relazione al presente che al futuro fa intendere che il suo nome si rivela nella storia e nel suo divenire. Inoltre il nome è anche relazione personale, come dice Dio a Mosè: “Io sono (‘ehyeh – sarò) con te”. È significativo che appaia il verbo “essere” prima che Dio riveli a Mosè il suo nome. Quel nome si è già manifestato come “l’essere con” Mosè, come si era manifestato nell’essere con i padri. E così sarà nel futuro. Il suo nome vive nella relazione che egli stabilisce con Mosè e con quel popolo a cui si è rivelato. Per questo l’uomo è chiamato a santificare il nome di Dio e a non profanarlo. Santificarlo è riconoscere Dio seguendo il suo insegnamento, obbedendo alle miswot della torà, vivendo nella storia alla sua presenza.

2. “Sia santificato il tuo nome.” L’uomo è chiamato a santificare il nome di Dio. Non che il suo nome non sia già santo di per sé, ma l’essere umano ha il compito di rendere la sua santità visibile e riconoscibile. Vorrei partire da un’affermazione che ritroviamo frequentemente nel libro di Ezechiele: “…perché sappiate che io sono il Signore”. Un grande esegeta tedesco del secolo scorso, uno dei migliori commentatori di Ezechiele, Walter Zimmerli, chiamava questa frase “formula di conoscenza” (Rivelazione di Dio. Una teologia dell’Antico Testamento, Jaca Book, Milano 1975, 19-107). Essa racchiude un’altra formula più breve e molto presente negli oracoli del profeta, che Zimmerli chiama “formula di autopresentazione”: “Io sono il Signore”. In essa l’azione di Dio rivela l’essenza del suo nome perché sia conosciuto, cioè sia amato. Il verbo “conoscere” in ebraico infatti non indica un semplice processo intellettivo, quanto piuttosto evidenzia la relazione tra due esseri viventi. Nel libro di Osea ad esempio la conoscenza di Dio si esprime attraverso la simbologia relazionale dell’amore tra marito e moglie. La conoscenza del nome divino, benché esso sia impronunciabile, conduce l’uomo a stabilire una relazione personale con lui, conseguenza del suo operare nella storia, come leggiamo in Os 6,6: “…voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti”. Amore e conoscenza di Dio sono uniti strettamente e stanno ad indicare l’essenza del rapporto uomo-Dio.

Il suo intervento nella storia, sia esso di condanna o di salvezza, condurrà Israele a riconoscere la forza del suo nome e della sua parola. Il nome divino rivela infatti il suo operare. Tutto ciò che il Signore intende dire e annunciare al suo popolo appare come un’esplicitazione dell’affermazione fondamentale del suo nome “Io sono il Signore”. Il capitolo 20 di Ezechiele è forse l’esempio migliore della portata storico salvifica del nome di Dio come si rivela nella storia. Il capitolo costituisce una rilettura della storia di Israele a partire dall’esodo fino all’esilio e all’annuncio del nuovo esodo. Ezechiele periodizza la storia del suo popolo, mettendo in luce il contrasto tra la sollecitudine divina e la disobbedienza di Israele. Le varie fasi storiche, nelle quali il profeta mostra l’infedeltà del suo popolo, sono caratterizzate dalla presenza continua della formula di autopresentazione che si inserisce all’interno della formula di conoscenza, indicando come essa sia il fine ultimo della storia di Dio con Israele in mezzo ai popoli (Cf. vv. 12.20.26.38.42.44). La conclusione dell’oracolo spiega da sé quanto detto, perché collega esplicitamente la formula al nome divino: “Allora saprete che io sono il Signore, quando agirò con voi per il mio nome e non secondo la vostra malvagia condotta e i vostri costumi corrotti, uomini di Israele”. Il nome divino manifesta la sua alterità ed anche l’intenzione del suo agire nella storia: condurre l’uomo attraverso la sua parola in comunione di vita con lui, all’interno del rapporto di alleanza. A tutto ciò si oppone l’idolatria, l’infedeltà alla legge, la profanazione del sabato, segno del rapporto tra Dio e il suo popolo. Forse possiamo notare un paradosso: è proprio la scuola teologica sacerdotale che tende a evidenziare l’importanza del nome divino come matrice della storia, nonostante essa sia consapevole della trascendenza divina e dell’impronunciabilità del suo nome.

Alla luce dei testi del Primo Testamento possiamo capire meglio la richiesta di Gesù ai discepoli nella preghiera del Padre Nostro. “Sia santificato il tuo nome”. L’uomo è coinvolto solo indirettamente nella santificazione del nome di Dio, perché la santità del nome si manifesta nel suo agire nella storia al di là dell’opera umana. Tuttavia, l’uomo può ostacolare la santificazione del nome con la sua profanazione attraverso l’idolatria, la propria condotta malvagia e il suo uso blasfemo.

3. La conseguenza antropologica della santificazione del nome divino è l’invito contenuto emblematicamente in diversi passi del libro del Levitico: “Siate santi perché io sono santo” (cf. Lev 11,44.45; 19,2; 20,7.26; 21,6-8). L’uomo santifica il nome di Dio, nel senso che gli è reso possibile di partecipare alla sua condizione di santità. Nel libro del Levitico questa possibilità è data all’uomo soprattutto attraverso l’osservanza della legge e l’astensione da tutto ciò che rende “impuri”, cioè lontani da Dio. In questo senso il sacerdote, in quanto colui che si avvicina al luogo di Dio, è santo: “Tu considererai dunque il sacerdote come santo, perché egli offre il pane del tuo Dio; sarà per te santo, perché io, il Signore, sono santo” (Lev 21,8). La santità di Dio tuttavia non separa, ma piuttosto invita gli uomini all’imitazione. Il Signore infatti è il Santo di Israele, come afferma molte volte Isaia (5,19.24; 6,3; 10,20…), perché in lui c’è la vita e la forza che salva. L’appartenenza al Dio santo rende anche Israele santo. Nel libro del Deuteronomio Israele è chiamato più volte “popolo santo” (Dt 7,6; 14,2; 14,21; 26,19). La santità di Dio coinvolge quindi il suo popolo sia nel senso che lo rende partecipe della vita che viene da lui, ma anche nel senso che essa diventa un invito a prendere parte alla condizione di Dio, che è il bene, la vita, la salvezza.

4. “Nel nome di Gesù.” Dio è così lontano, così altro da non poterne pronunciare il nome? L’alterità divina non è assoluta separazione, anzi Dio si è fatto parola per poter comunicare con gli uomini. Nella Scritture ebraiche esiste tutta una tensione tra il nascondimento di Dio e il suo svelamento. Scrive sempre Heshel in un altro bel libro, L’uomo non è solo: “I profeti non parlano del Dio nascosto, ma del Dio che si nasconde. Il suo nascondersi è una funzione, non la sua essenza; è un atto, non uno stato permanente. Solo quando il popolo lo ripudia, rompendo il patto che egli ha stretto con esso, egli a sua volta lo ripudia e nasconde il suo volto (Dt 31,16-1)”. (p. 135) A Mosè fu permesso di vedere la sua schiena ma non il suo volto (Es 33,18-23):
[18]Gli disse: «Mostrami la tua Gloria!».

[19]Rispose: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia». [20]Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». [21]Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: [22]quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. [23]Poi toglierò la mano e vedrai la mia schiena, ma il mio volto non lo si può vedere».

Tuttavia di lui si dice che parlava con Dio faccia a faccia, come un uomo parla con un altro (Es 33,11). Insomma, Dio si avvicina. Il suo desiderio è di incontrare l’uomo, di manifestarsi a lui, di renderlo partecipe della sua stessa vita. Qui il nome del Signore è quello della misericordia che si rivela nella storia del suo popolo, anche dopo il tradimento dell’alleanza. Solo per grazia, si potrebbe dire, è il suo nome. La qabbalà ha cercato di interpretare e spiegare questo avvicinarsi e svelarsi di Dio quasi infrangendo la maggiore riservatezza dei testi biblici e della tradizione rabbinica. Le dieci sefirot sono concepite come la manifestazione progressiva dei dieci nomi di Dio (Ehyeh, Yhwh, Yah, Eloim, El, Yhwh, Eloim Seba’ot, Yhwh Seba’ot, El Shaddai, Adonai) (G. Sholem, La Cabala, Roma 1982, 113)

Nel cristianesimo l’avvicinarsi di Dio e il suo svelamento ha raggiunto il suo compimento in Gesù di Nazaret, nella sua incarnazione e nel suo passaggio in questo mondo. “Chi ha visto me, ha visto il Padre”, rispose Gesù all’apostolo Filippo (Gv 14,9). Per questo il nome di Gesù diventa il centro della rivelazione cristiana, come canta quel bellissimo inno della lettera ai Filippesi (2,6-11):

“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
[6]il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
[7]ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
[8]umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
[9]Per questo Dio l'ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
[10]perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
[11]e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.

Anche in Atti 3,16 e 4,10-12 ritorna la stessa idea della forza salvifica del nome di Gesù: “…la cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d'Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. (Questo Gesù è «la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d'angolo.») In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati.” Non è necessario dilungarsi sul valore salvifico che il nome di Gesù ha per il cristiano.

Vorrei tuttavia concludere accennando a quanto il nome di Gesù sia diventato il cuore della preghiera soprattutto all’interno dell’antica tradizione della chiesa di oriente, tramandata in particolare dalla Filocalia e raccontata in modo emblematico nei “Racconti di un pellegrino russo”. Preghiera del nome, preghiera di Gesù o anche preghiera del cuore, perché espressa da una semplice invocazione da ripetere incessantemente: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”. Dicono i racconti di un pellegrino russo: “Il Vangelo e la preghiera di Gesù sono la stessa cosa; il Divino Nome di Gesù Cristo racchiude infatti in sé tutte le verità evangeliche. I Santi Padri dicono che la Preghiera di Gesù riassume tutto il vangelo”. (Città Nuova, Roma 1987, 124).

Come abbiamo potuto constatare, il secondo comandamento contiene molto di più della semplice proibizione della bestemmia. “Il non pronunciare il nome di Dio invano” (lassawe dice l’ebraico) manifesta il pericolo constante per l’uomo di rendere vana la presenza di Dio nella storia mediante l’idolatria e la mancata obbedienza alla parola divina. Infatti il nome di Dio manifesta la sua santità, che si rivela nel suo agire pieno di amore verso il suo popolo. La bestemmia e il giuramento falso sono la conseguenza di una scelta di vita in cui si è resa vana e inefficace la presenza di Dio. Il comandamento invita perciò il credente a ripensare il senso della presenza di Dio, in connessione stretta con il primo comandamento, che afferma l’unicità di Dio.


* testo tratto dalla registrazione e non rivisto dall’autore

| home |

| inizio pagina |

   
angolo