Sono lieto di stare qui, nell’Aula Magna - l’anno scorso ancora non era
disponibile - ed è un’occasione direi necessaria per, simbolicamente, mettere in
risalto i vincoli comuni e le strade che condividiamo o ci dividono.
L’argomento scelto per questa serata è quello che nel canone ebraico,
nel canone protestante, è considerato il terzo comandamento mentre non dovrebbe
esserlo per il canone cattolico ed è già importante il fatto che, pur di trovare
un accordo per parlare, ci sia stata questa sorta di compromesso.
Vorrei un po’ sistematicamente cercare di spiegare qual è l’approccio
ebraico a questa frase così importante e quali sono le numerose sfaccettature di
questo quasi enigmatico pronunciamento divino. È un pronunciamento divino, ma i
maestri sottolineano il fatto che i primi due comandamenti sono stati
direttamente espressi dalla voce divina e direttamente capiti dal popolo, mentre
da questo comandamento in avanti è la voce di Mosé che li trasmette o almeno li
spiega. Questo già indica che c’è un passaggio di solennità e di rigore dalla
sfera alta divina alla sfera della fruizione umana. Le parole che compongono
questa frase vanno spiegate letteralmente:
לֹ֥א תִשָּׂ֛א אֶת־שֵֽׁם־יְהוָ֥ה אֱלֹהֶ֖יךָ לַשָּׁ֑וְא כִּ֣י
לֹ֤א יְנַקֶּה֙ יְהוָ֔ה אֵ֛ת אֲשֶׁר־יִשָּׂ֥א אֶת־שְׁמ֖וֹ לַשָּֽׁוְא׃
La parolaתִשָּׂא
viene da una
radice che indica il sollevare, il portare, metaforicamente pronunciare il Nome,
אֶת-שֵׁם.
Un parallelo di questa modalità di espressione è il Salmo 16, 4 dove è detto: “e
non alzerò”, quindi, “non pronuncerò il loro nome sulle mie labbra”. Innalzare
il Nome significa portarlo alle labbra, trasformarlo dalla dimensione interiore
alla dimensione esteriore, anche se ci sono dei commentatori che sottolineano
che in questo termine c’è qualcosa che si riferisce al ricordo e quindi il
ricordo ha una dimensione interiore, quella del cuore simbolicamente, e una
dimensione esteriore che è quella della bocca ed è qua che appunto si esprime il
comando.
Tutta una tradizione che vedremo meglio più avanti, interpreta questa
espressione non come riferita a una qualsiasi pronuncia del Nome di Dio, ma
specificamente all’ambito giuridico del giuramento, ma di questo parliamo dopo.
לֹא
תִשָּׂא
dunque
significa “portare sulla dimensione della comunicazione il Nome divino”. Il Nome
divino di cui si parla qui è il Nome divino tetragrammato, quello scritto con
quattro lettere, quello noi che non pronunciamo come è scritto e che leggiamo
con l’espressione “Adonai” che significa “il mio Signore”.
Nella Bibbia
com’è noto esistono diversi nomi divini e la Bibbia inizia con il Nome “Elohim”.
Dei nomi divini esistono varie possibilità già nel libro della Genesi e i due
nomi principali che si incontrano già all’inizio del racconto della creazione
sono quello di Elohim e Adonai. Sapete che nella critica biblica
questa differenza di nomi ha dato luogo a teorie che attribuiscono la presenza
di un nome a quella di un autore specifico, quindi un autore che usa un nome e
un autore che usa l’altro e la Bibbia non sarebbe altro che una condensazione
di diverse fonti che si rivelano nella loro diversità per un nome. Nella
tradizione esegetica ebraica la differenza è ovviamente notata, ma viene
interpretata in maniera radicalmente differente: la differenza del nome
indica un differente attributo divino o un differente modo di Dio di
manifestarsi nel mondo per cui Elohim, che è anche un termine plurale -
che solleva da tempi antichi le obiezioni di coloro che dicono: vedete che non
c’è monoteismo alle radici dell’ebraismo - questo Elohim indica il Dio
che si rivela nella natura, laddove Adonai indica il Dio che si rivela
nella storia. E’ fondamentale nel messaggio biblico la integrazione del concetto
del Dio della natura con il concetto del Dio che partecipa alla storia.
Un’altra possibile immagine di questa diversità di nomi divini è che il
termine Elohim sia quello della giustizia rigorosa, laddove Adonai
è quello della misericordia divina e quindi entrambi questi elementi sono
presenti.
Ma quando Dio si rivela, appunto all’inizio del Decalogo dice:
אָנֹכִי יְהוָה
, Io sono il Signore che ti ha fatto uscire dall’Egitto, quindi è il Dio che è
presente nella storia. Si sarebbe in qualche modo portati a pensare che questo
comando specificamente insiste sul fatto che non bisogna banalizzare il concetto
di Dio che si presenta nella storia.
L’altro elemento di questo comando è il termine
לַשָּׁוְא,
non pronunciare il Nome di Dio
לַשָּׁוְא,
lashâv.
שָּׁוְא,
shâv, viene tradotto comunemente “invano”.
In realtà questa parola ha una storia e un significato complesso perché
significa nel linguaggio biblico tante cose differenti. Nella traduzione latina
del Mandel ci sono quattro accezioni fondamentali di questo termine e sono tutte
quante presenti nello spirito di questo comandamento.
שָּׁוְא,
è la
scelleratezza e la nequizia, quindi indica il delitto: non pronunciare il Nome
di Dio per commettere un delitto. Indica un evento negativo, una calamità,
indica la falsità, quindi: non pronunciare il Nome di Dio collegato alle
calamità o per provocare calamità. Non pronunciare il Nome di Dio dicendo cose
false. Infine il significato più noto è quello della vanità, della cosa inutile.
Tutti questi significati sono presenti nel termine.
È stato anche notato, cosa che è stata notata in secoli passati ma
adesso assume più significato simbolico, che la lettera
ו,
waw, è la stessa lettera con la quale in ebraico si scrive la “o”. Quindi la
radice di
שָּׁוְא è la stessa radice della parola shoah, dove shoah
indica letteralmente il turbine, la tempesta. Per questo la tragedia
dell’ebraismo europeo nella seconda guerra mondiale è stata chiamata shoah,
per indicare la tempesta che travolge tutto. Quale potrebbe essere il rapporto
tra שָּׁוְא
e shoah riferita a questo comando? Un rapporto che dice che esiste vanità
e vento, ma ha anche un senso angosciante questo comando, perché l’uso improprio
del Nome di Dio può portare a tempeste e a rovine.
C’è da riflettere sulla seconda parte di
questo comando in cui è detto che il Signore לֹא
יְנַקֶּה,
non perdonerà, non lascerà pulito, con la fedina pulita colui che pronuncerà il
Nome di Dio invano.
In tutti i Dieci Comandamenti, la punizione per l’inosservanza è
espressa soltanto nel comando dell’idolatria e nel comando che stiamo
affrontando. Questo per dire che non pronunciare il Nome di Dio è collegato
simbolicamente al comando dell’idolatria. Là dove esiste anche un discorso di
premi nei Dieci Comandamenti, i premi non sono per questo comandamento se viene
osservato, ma per il rispetto del padre e della madre e per il comandamento
dell’idolatria. Il comandamento dell’idolatria - che è il secondo e che abbiamo
discusso l’anno scorso - dice che Dio ricorda il peccato dei padri sui figli
fino alla terza e quarta generazione e fa del bene fino alla millesima
generazione, quindi c’è il premio e la punizione. Nel nostro caso è riferita
soltanto la punizione. Questo può far stabilire dei collegamenti segreti e
paralleli tra l’importanza e una cosa e altra.
Come viene interpretato generalmente questo comandamento nella
tradizione ebraica? C’è un’interpretazione in senso stretto e una
interpretazione in senso largo, ci sono interpretazioni in senso largo antiche e
in senso largo moderne. Nel senso stretto tutto questo discorso si riferisce
all’uso improprio del giuramento: non bisogna giurare usando il Nome di Dio
invano, e c’è una sottile distinzione tra il giuramento invano e il giuramento
menzognero che è sancito negli stessi Dieci Comandamenti: alla fine dei Dieci
Comandamenti c’è scritto non fare una testimonianza falsa contro il tuo
prossimo. Ma qual è la specificità?
Ci sono tradizioni giuridiche che dicono che il giuramento vano
appartiene a quattro categorie possibili. La prima categoria è quella di
cambiare cose note: se dico che l’acqua è vino. Alterare cose note: è noto a
tutti che questa è acqua e se io giuro che questo è vino altero una cosa nota.
Altra cosa è quella che può essere chiamata la tautologia: io giuro che questa è
acqua. Ma che questa è acqua lo vedono tutti e giurare su una cosa nota
significa banalizzare il concetto di giuramento. Altra possibilità, che è più
tecnica nell’ambito ebraico, è un annullare il valore di un precetto, oppure
giurare, impegnasi a fare delle cose che una persona non può rispettare o non
potrà mai rispettare. I commenti sottolineano che queste categorie indicano che
facendo in questo modo si offende la realtà, la divinità in tanti modi
possibili. Una persona che modifica la realtà esistente nega la creazione. Una
persona che vuole confermare dicendo cose banali è come se fosse lui a voler
sostituire l’opera della creazione e c’è bisogno di confermarla con il proprio
giuramento. Una persona che vuole annullare un precetto è come se annullasse lo
stesso istituto, la costruzione dell’intera Torah, e la persona che giura una
cosa che non può fare praticamente è come se si mettesse sul piano del Creatore
per fare delle cose che lui non potrà mai fare. E quindi in queste iniziative
c’è una sorta di profanazione sostanziale del senso della presenza di Dio nel
mondo.
Esiste anche, andando avanti in questo senso di profanazione, una
tradizione mistica che sottolinea la particolare gravità di questo reato perché
una persona che giura invano è come se raccogliesse alcune parti della realtà
divina per nasconderne altre. E’ un atto in cui si spezza l’unità divina.
E poi c’è un gioco di parole perché la parola
לֹא תִשָּׂא
che ha tanti significati, può significare anche sposarsi, condurre una
donna in casa e quindi è collegata ad un senso matrimoniale, ma in questo caso
diventa un senso matrimoniale adulterino: rubarsi impropriamente una parte della
divinità. La divinità deve essere lasciata nella sua assoluta unità.
Tutto questo riguarda il mondo del giuramento e a proposito del
giuramento, viene fatto notare che la parola ebraica che indica specificamente
il giuramento, shevu’â, è legato nella sua radice al termine shêva
che indica sette, quindi c’è un collegamento con il significato del numero
sette. In questo caso alcuni interpreti dicono che sette sono le volte che la
parola menzogna è comparsa in Ezechiele, sette sono le volte in cui la parola
abominio ritorna nel libro dei Proverbi, sette sono le volte in cui il termine
peccato compare nelle ammonizioni del Levitico e sette sono i nomi dell’istinto
a compiere il male.
La accezione più larga va al di fuori del termine giuramento: non è
soltanto il giuramento che è proibito, ma la banalizzazione del Nome divino. La
banalizzazione del Nome divino riconosce diverse gradualità e si comincia dal
fatto che il Nome divino non deve essere assolutamente pronunciato. Come ho
accennato all’inizio, il Nome scritto con quattro lettere non lo dobbiamo
leggere come è scritto, ma dobbiamo chiamarlo Adonai. E così in tante
altre circostanze dobbiamo astenerci dal pronunciare il Nome di Dio. E quando
pronunciamo il Nome di Dio dobbiamo aggiungergli una qualifica di benedizione.
Nel Talmud, quando si parla di Dio che fa qualche cosa, il termine che lo indica
è Kadosh Barochu, il Santo che Egli sia benedetto. E quando invece ci si
rivolge a Dio - non lo si chiama mai Dio - tranne che nelle preghiere codificate
- nella preghiera personale, ci si rivolge a Lui con un attributo, per esempio
Padrone del mondo. Bisogna stare molto attenti a nominare Dio: il Nome è
definizione e definire significa limitare, entrare a parlare del Nome di Dio è
in qualche modo entrare in una intimità e questa intimità deve essere vissuta in
maniera assolutamente rispettosa. Farlo proprio sì, ma mai disconoscere le
differenze.
Si potrebbe pensare che tutte queste siano preoccupazioni eccessive in
campo ebraico. Vorrei raccontarvi una cosa interessante. Quando ormai quasi due
anni fa sono andato in udienza dal papa Benedetto XVI insieme al mio
accompagnatore, prof. Levi, gli ho espresso l’imbarazzo ebraico per un uso che
si sta sempre più allargando nel mondo cristiano di pronunciare comunemente il
Nome di Dio e la risposta che abbiamo avuto anche con un certo stupore ammirato
da Papa, è stato che non condivideva affatto questo uso e che ne attribuiva
l’introduzione nel mondo cattolico ad una nefasta influenza dello storicismo.
Fatto sta che nel libro “Gesù di Nazaret” a pag. 173 ha scritto “e pertanto non
è corretto che nelle nuove traduzioni della Bibbia si scriva come un qualsiasi
nome, questo Nome per Israele sempre misterioso e impronunciabile, riducendo
così il mistero di Dio, del quale non esistono né immagini né nomi
pronunciabili, all’ordinarietà di una comune storia delle religioni”. Vedete che
anche questi sono valori condivisi in modo interessante.
Vorrei usare questi ultimi due minuti che mi rimangono per una
riflessione sul fatto che anche la preghiera può essere vana. Tecnicamente la
preghiera è vana quando già una cosa è successa: non si può pregare quando una
donna attende un bambino perché sia maschio o femmina a seconda dei gusti o
delle preferenze, perché questo ormai è già deciso. Se le cose sono già avvenute
non si possono sprecare le preghiere. Questo è ovvio, anche se non ci si sta
attenti.
Ma esistono anche delle preghiere che possono non essere indirizzate in
modo giusto. C’è una raccomandazione molto forte della tradizione, un divieto
preciso: abbiamo detto che il Nome di Dio è accompagnato dalle benedizioni, ma
non bisogna neppure fare delle benedizioni inutili, quindi eccedere nelle
benedizioni. Ogni cosa deve essere fatta al posto giusto.
Poi ci sono degli ambiti che dobbiamo tenere presenti in questa
prospettiva. Uscendo dal terreno specificamente tecnico nel quale ci siamo
avventurati fino ad adesso, bisogna ricordare che pronunciare il Nome di Dio
invano è il male del nostro tempo, forse lo è stato anche di tempi passati, e
quando si compiono le peggiori cose richiamandosi al Nome di Dio. Questa è
l’attualità di questo insegnamento.
Vorrei, con la franchezza che mi è abituale ricordare anche che nel
progresso dei rapporti tra i nostri mondi abbiamo raggiunto tanti risultati
buoni, ma qualche volta ci sono dei passi indietro. Proprio nell’ambito del
pronunciare il Nome di Dio invano, credo che si debba collocare anche il
ripristino, per altro discusso e controverso nel mondo cattolico, di una
preghiera che dovrebbe essere fatta in latino per il popolo ebraico, nel venerdì
santo, nella quale, benché siano stati tolti i riferimenti alla nostra perfidia,
si chiede che sul nostro popolo si faccia risplendere il volto divino affinché
anche essi riconoscano il redentore di tutti, cosa che non sembra ai nostri
occhi un gesto di conciliazione quanto piuttosto di opposizione. Se stiamo qua è
perché rispettiamo ciascuno la fede dell’altro e la differenza dell’altro.
Anche pregare può essere rischioso. È facile per tutti quanti dire che
un terrorista che si fa esplodere per aria ammazzando la gente e che lo fa nel
nome di quello che presume essere il suo Dio che l’ha mandato, sta facendo una
bestemmia, pronuncia il Nome di Dio invano. Più difficile pensare come nelle
nostre azioni quotidiane, anche in ciò che pensiamo sia un atto perfettamente
religioso, noi rischiamo un atto vano, un atto falso e forse un atto che produce
disgrazie, che Dio Benedetto, non voglia!
Grazie.