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    17 gennaio 2008 - XIX Giornata ebraico-cristiana
Roma, Università Lateranense
Rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma

La terza delle Dieci Parole
«Non pronunziare il Nome del Signore Dio tuo invano» (Es 20,7)
 






 
Sono lieto di stare qui, nell’Aula Magna - l’anno scorso ancora non era disponibile - ed è un’occasione direi necessaria per, simbolicamente, mettere in risalto i vincoli comuni e le strade che condividiamo o ci dividono.

L’argomento scelto per questa serata è quello che nel canone ebraico, nel canone protestante, è considerato il terzo comandamento mentre non dovrebbe esserlo per il canone cattolico ed è già importante il fatto che, pur di trovare un accordo per parlare, ci sia stata questa sorta di compromesso.

Vorrei un po’ sistematicamente cercare di spiegare qual è l’approccio ebraico a questa frase così importante e quali sono le numerose sfaccettature di questo quasi enigmatico pronunciamento divino. È un pronunciamento divino, ma i maestri sottolineano il fatto che i primi due comandamenti sono stati direttamente espressi dalla voce divina e direttamente capiti dal popolo, mentre da questo comandamento in avanti è la voce di Mosé che li trasmette o almeno li spiega. Questo già indica che c’è un passaggio di solennità e di rigore dalla sfera alta divina alla sfera della fruizione umana. Le parole che compongono questa frase vanno spiegate letteralmente:
לֹ֥א תִשָּׂ֛א אֶת־שֵֽׁם־יְהוָ֥ה אֱלֹהֶ֖יךָ לַשָּׁ֑וְא כִּ֣י לֹ֤א יְנַקֶּה֙ יְהוָ֔ה אֵ֛ת אֲשֶׁר־יִשָּׂ֥א אֶת־שְׁמ֖וֹ לַשָּֽׁוְא׃

La parolaתִשָּׂא  viene da una radice che indica il sollevare, il portare, metaforicamente pronunciare il Nome, אֶת-שֵׁם. Un parallelo di questa modalità di espressione è il Salmo 16, 4 dove è detto: “e non alzerò”, quindi, “non pronuncerò il loro nome sulle mie labbra”. Innalzare il Nome significa portarlo alle labbra, trasformarlo dalla dimensione interiore alla dimensione esteriore, anche se ci sono dei commentatori che sottolineano che in questo termine c’è qualcosa che si riferisce al ricordo e quindi il ricordo ha una dimensione interiore, quella del cuore simbolicamente, e una dimensione esteriore che è quella della bocca ed è qua che appunto si esprime il comando.

Tutta una tradizione che vedremo meglio più avanti, interpreta questa espressione non come riferita a una qualsiasi pronuncia del Nome di Dio, ma specificamente all’ambito giuridico del giuramento, ma di questo parliamo dopo.

לֹא תִשָּׂא dunque significa “portare sulla dimensione della comunicazione il Nome divino”. Il Nome divino di cui si parla qui è il Nome divino tetragrammato, quello scritto con quattro lettere, quello noi che non pronunciamo come è scritto e che leggiamo con l’espressione “Adonai” che significa “il mio Signore”.

Nella Bibbia com’è noto esistono diversi nomi divini e la Bibbia inizia con il Nome “Elohim”. Dei nomi divini esistono varie possibilità già nel libro della Genesi e i due nomi principali che si incontrano già all’inizio del racconto della creazione sono quello di Elohim e Adonai. Sapete che nella critica biblica questa differenza di nomi ha dato luogo a teorie che attribuiscono la presenza di un nome a quella di un autore specifico, quindi un autore che usa un nome e un autore che usa l’altro e la Bibbia non sarebbe  altro che una condensazione di diverse fonti che si rivelano nella loro diversità per un nome. Nella tradizione esegetica ebraica la differenza è ovviamente notata, ma viene interpretata in maniera radicalmente differente: la differenza del nome indica un differente attributo divino o un differente modo di Dio di manifestarsi nel mondo per cui Elohim, che è anche un termine plurale - che solleva da tempi antichi le obiezioni di coloro che dicono: vedete che non c’è monoteismo alle radici dell’ebraismo - questo Elohim indica il Dio che si rivela nella natura, laddove Adonai indica il Dio che si rivela nella storia. E’ fondamentale nel messaggio biblico la integrazione del concetto del Dio della natura con il concetto del Dio che partecipa alla storia.

Un’altra possibile immagine di questa diversità di nomi divini è che il termine Elohim sia quello della giustizia rigorosa, laddove Adonai è quello della misericordia divina e quindi entrambi questi elementi sono presenti.

Ma quando Dio si rivela, appunto all’inizio del Decalogo dice: אָנֹכִי יְהוָה , Io sono il Signore che ti ha fatto uscire dall’Egitto, quindi è il Dio che è presente nella storia. Si sarebbe in qualche modo portati a pensare che questo comando specificamente insiste sul fatto che non bisogna banalizzare il concetto di Dio che si presenta nella storia.

L’altro elemento di questo comando è il termine לַשָּׁוְא, non pronunciare il Nome di Dio לַשָּׁוְא, lashâv. שָּׁוְא, shâv, viene tradotto comunemente “invano”. In realtà questa parola ha una storia e un significato complesso perché significa nel linguaggio biblico tante cose differenti. Nella traduzione latina del Mandel ci sono quattro accezioni fondamentali di questo termine e sono tutte quante presenti nello spirito di questo comandamento.

שָּׁוְא, è la scelleratezza e la nequizia, quindi indica il delitto: non pronunciare il Nome di Dio per commettere un delitto. Indica un evento negativo, una calamità, indica la falsità, quindi: non pronunciare il Nome di Dio collegato alle calamità o per provocare calamità. Non pronunciare il Nome di Dio dicendo cose false. Infine il significato più noto è quello della vanità, della cosa inutile. Tutti questi significati sono presenti nel termine.

È stato anche notato, cosa che è stata notata in secoli passati ma adesso assume più significato simbolico, che la lettera ו, waw, è la stessa lettera con la quale in ebraico si scrive la “o”. Quindi la radice di שָּׁוְא è la stessa radice della parola shoah, dove shoah indica letteralmente il turbine, la tempesta. Per questo la tragedia dell’ebraismo europeo nella seconda guerra mondiale è stata chiamata shoah, per indicare la tempesta che travolge tutto. Quale potrebbe essere il rapporto tra שָּׁוְא e shoah riferita a questo comando? Un rapporto che dice che esiste vanità e vento, ma ha anche un senso angosciante questo comando, perché l’uso improprio del Nome di Dio può portare a tempeste e a rovine.      

C’è da riflettere sulla seconda parte di questo comando in cui è detto che il Signore לֹא יְנַקֶּה, non perdonerà, non lascerà pulito, con la fedina pulita colui che pronuncerà il Nome di Dio invano.

In tutti i Dieci Comandamenti, la punizione per l’inosservanza è espressa soltanto nel comando dell’idolatria e nel comando che stiamo affrontando. Questo per dire che non pronunciare il Nome di Dio è collegato simbolicamente al comando dell’idolatria. Là dove esiste anche un discorso di premi nei Dieci Comandamenti, i premi non sono per questo comandamento se viene osservato, ma per il rispetto del padre e della madre e per il comandamento dell’idolatria. Il comandamento dell’idolatria - che è il secondo e che abbiamo discusso l’anno scorso - dice che Dio ricorda il peccato dei padri sui figli fino alla terza e quarta generazione e fa del bene fino alla millesima generazione, quindi c’è il premio e la punizione. Nel nostro caso è riferita soltanto la punizione. Questo può far stabilire dei collegamenti segreti e paralleli tra l’importanza e una cosa e altra.

Come viene interpretato generalmente questo comandamento nella tradizione ebraica? C’è un’interpretazione in senso stretto e una interpretazione in senso largo, ci sono interpretazioni in senso largo antiche e in senso largo moderne. Nel senso stretto tutto questo discorso si riferisce all’uso improprio del giuramento: non bisogna giurare usando il Nome di Dio invano, e c’è una sottile distinzione tra il giuramento invano e il giuramento menzognero che è sancito negli stessi Dieci Comandamenti: alla fine dei Dieci Comandamenti c’è scritto non fare una testimonianza falsa contro il tuo prossimo. Ma qual è la specificità?

Ci sono tradizioni giuridiche che dicono che il giuramento vano appartiene a quattro categorie possibili. La prima categoria è quella di cambiare cose note: se dico che l’acqua è vino. Alterare cose note: è noto a tutti che questa è acqua e se io giuro che questo è vino altero una cosa nota. Altra cosa è quella che può essere chiamata la tautologia: io giuro che questa è acqua. Ma che questa è acqua lo vedono tutti e giurare su una cosa nota significa banalizzare il concetto di giuramento. Altra possibilità, che è più tecnica nell’ambito ebraico, è un annullare il valore di un precetto, oppure giurare, impegnasi a fare delle cose che una persona non può rispettare o non potrà mai rispettare. I commenti sottolineano che queste categorie indicano che facendo in questo modo si offende la realtà, la divinità in tanti modi possibili. Una persona che modifica la realtà esistente nega la creazione. Una persona che vuole confermare dicendo cose banali è come se fosse lui a voler sostituire l’opera della creazione e c’è bisogno di confermarla con il proprio giuramento. Una persona che vuole annullare un precetto è come se annullasse lo stesso istituto, la costruzione dell’intera Torah, e la persona che giura una cosa che non può fare praticamente è come se si mettesse sul piano del Creatore per fare delle cose che lui non potrà mai fare. E quindi in queste iniziative c’è una sorta di profanazione sostanziale del senso della presenza di Dio nel mondo.

Esiste anche, andando avanti in questo senso di profanazione, una tradizione mistica che sottolinea la particolare gravità di questo reato perché una persona che giura invano è come se raccogliesse alcune parti della realtà divina per nasconderne altre. E’ un atto in cui si spezza l’unità divina.

E poi c’è un gioco di parole perché la parola לֹא תִשָּׂא che ha tanti significati, può significare anche sposarsi, condurre una donna in casa e quindi è collegata ad un senso matrimoniale, ma in questo caso diventa un senso matrimoniale adulterino: rubarsi impropriamente una parte della divinità. La divinità deve essere lasciata nella sua assoluta unità.

Tutto questo riguarda il mondo del giuramento e a proposito del giuramento, viene fatto notare che la parola ebraica che indica specificamente il giuramento, shevu’â, è legato nella sua radice al termine shêva che indica sette, quindi c’è un collegamento con il significato del numero sette. In questo caso alcuni interpreti dicono che sette sono le volte che la parola menzogna è comparsa in Ezechiele, sette sono le volte in cui la parola abominio ritorna nel libro dei Proverbi, sette sono le volte in cui il termine peccato compare nelle ammonizioni del Levitico e sette sono i nomi dell’istinto a compiere il male.

La accezione più larga va al di fuori del termine giuramento: non è soltanto il giuramento che è proibito, ma la banalizzazione del Nome divino. La banalizzazione del Nome divino riconosce diverse gradualità e si comincia dal fatto che il Nome divino non deve essere assolutamente pronunciato. Come ho accennato all’inizio, il Nome scritto con quattro lettere non lo dobbiamo leggere come è scritto, ma dobbiamo chiamarlo Adonai. E così in tante altre circostanze dobbiamo astenerci dal pronunciare il Nome di Dio. E quando pronunciamo il Nome di Dio dobbiamo aggiungergli una qualifica di benedizione. Nel Talmud, quando si parla di Dio che fa qualche cosa, il termine che lo indica è Kadosh Barochu, il Santo che Egli sia benedetto. E quando invece ci si rivolge a Dio - non lo si chiama mai Dio - tranne che nelle preghiere codificate - nella preghiera personale, ci si rivolge a Lui con un attributo, per esempio Padrone del mondo. Bisogna stare molto attenti a nominare Dio: il Nome è definizione e definire significa limitare, entrare a parlare del Nome di Dio è in qualche modo entrare in una intimità e questa intimità deve essere vissuta in maniera assolutamente rispettosa. Farlo proprio sì, ma mai disconoscere le differenze.

Si potrebbe pensare che tutte queste siano preoccupazioni eccessive in campo ebraico. Vorrei raccontarvi una cosa interessante. Quando ormai quasi due anni fa sono andato in udienza dal papa Benedetto XVI insieme al mio accompagnatore, prof. Levi, gli ho espresso l’imbarazzo ebraico per un uso che si sta sempre più allargando nel mondo cristiano di pronunciare comunemente il Nome di Dio e la risposta che abbiamo avuto anche con un certo stupore ammirato da Papa, è stato che non condivideva affatto questo uso e che ne attribuiva l’introduzione nel mondo cattolico ad una nefasta influenza dello storicismo. Fatto sta che nel libro “Gesù di Nazaret” a pag. 173 ha scritto “e pertanto non è corretto che nelle nuove traduzioni della Bibbia si scriva come un qualsiasi nome, questo Nome per Israele sempre misterioso e impronunciabile, riducendo così il mistero di Dio, del quale non esistono né immagini né nomi pronunciabili, all’ordinarietà di una comune storia delle religioni”. Vedete che anche questi sono valori condivisi in modo interessante.

Vorrei usare questi ultimi due minuti che mi rimangono per una riflessione sul fatto che anche la preghiera può essere vana. Tecnicamente la preghiera è vana quando già una cosa è successa: non si può pregare quando una donna attende un bambino perché sia maschio o femmina a seconda dei gusti o delle preferenze, perché questo ormai è già deciso. Se le cose sono già avvenute non si possono sprecare le preghiere. Questo è ovvio, anche se non ci si sta attenti.

Ma esistono anche delle preghiere che possono non essere indirizzate in modo giusto. C’è una raccomandazione molto forte della tradizione, un divieto preciso: abbiamo detto che il Nome di Dio è accompagnato dalle benedizioni, ma non bisogna neppure fare delle benedizioni inutili, quindi eccedere nelle benedizioni. Ogni cosa deve essere fatta al posto giusto.

Poi ci sono degli ambiti che dobbiamo tenere presenti in questa prospettiva. Uscendo dal terreno specificamente tecnico nel quale ci siamo avventurati fino ad adesso, bisogna ricordare che pronunciare il Nome di Dio invano è il male del nostro tempo, forse lo è stato anche di tempi passati, e quando si compiono le peggiori cose richiamandosi al Nome di Dio. Questa è l’attualità di questo insegnamento.

Vorrei, con la franchezza che mi è abituale ricordare anche che nel progresso dei rapporti tra i nostri mondi abbiamo raggiunto tanti risultati buoni, ma qualche volta ci sono dei passi indietro. Proprio nell’ambito del pronunciare il Nome di Dio invano, credo che si debba collocare anche il ripristino, per altro discusso e controverso nel mondo cattolico, di una preghiera che dovrebbe essere fatta in latino per il popolo ebraico, nel venerdì santo, nella quale, benché siano stati tolti i riferimenti alla nostra perfidia, si chiede che sul nostro popolo si faccia risplendere il volto divino affinché anche essi riconoscano il redentore di tutti, cosa che non sembra ai nostri occhi un gesto di conciliazione quanto piuttosto di opposizione. Se stiamo qua è perché rispettiamo ciascuno la fede dell’altro e la differenza dell’altro.

Anche pregare può essere rischioso. È facile per tutti quanti dire che un terrorista che si fa esplodere per aria ammazzando la gente e che lo fa nel nome di quello che presume essere il suo Dio che l’ha mandato, sta facendo una bestemmia, pronuncia il Nome di Dio invano. Più difficile pensare come nelle nostre azioni quotidiane, anche in ciò che pensiamo sia un atto perfettamente religioso, noi rischiamo un atto vano, un atto falso e forse un atto che produce disgrazie, che Dio Benedetto, non voglia!

Grazie. 


* testo tratto dalla registrazione e non rivisto dall’autore

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