Convegno per
"Un'Europa senza antisemitismo"
organizzato dai cattolici di Sant'Egidio e dalle Comunità ebraiche
Fiaccolata nel luogo della retata nazista
16 Ottobre 2002,
Campidoglio
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Piero Terracina guarda i suoi passi che lo portano sempre lì. Dal
Ghetto si parte e al Ghetto si torna, perché è casa, il ventre materno.
Piero Terracina è un sopravvissuto di Auschwitz, l´unico di otto
Terracina rastrellati dai tedeschi, uno dei pochi ebrei d´allora ancora
in vita. Ha 74 anni e una voglia di testimoniare che gli è nata dentro
come una missione, pure se è l´oggi che lo impensierisce. Legge i
giornali, le intolleranze razziali, il marocchino ridotto in coma a forza
di bastonate. Scuote la testa, le nuvole di un tempo si ripropongono
feroci. Nel 1995 tornò nel «suo lager» per girare un lungometraggio
Rai, un viaggio nella memoria che gli costò una sofferenza atroce. Un
salto indietro di cinquantatre anni, come non fosse mai uscito di lì.
Oggi quel documentario sarà proiettato, assieme ad altre testimonianze
filmate, all'Archivio di Stato, grazie alla Shoa Foundation istituita da
Steven Spielberg. Oggi, una giornata dura per Terracina. Gli si chiede di
rifare quel salto indietro, non una, mille volte, nell'arco della lunga
giornata di commemorazione. Il 16 ottobre 1943 si ricorda la deportazione
degli ebrei romani con una serie di manifestazioni, in Campidoglio un
convegno, una marcia notturna e l´intitolazione di una strada, una parte
del Portico d´Ottavia, appunto a quella data infausta. Terracina parlerà
in mattinata ai ragazzi del liceo Visconti, per raccontare la sua storia
di deportato alla presenza del sindaco Veltroni. Terracina, un altro salto
indietro: «Noi siamo stati arrestati il 7 aprile del 1944 ma quel 16
ottobre non lo posso dimenticare perché è stato l´inizio della fine.
Ero in fila dal tabaccaio a Monteverde quando vidi mio padre corrermi
incontro sconvolto. "Andiamo via, i tedeschi stanno rastrellando gli
ebrei, al Ghetto è un disastro". Per sicurezza decidemmo di
dividerci. Mia madre e mia sorella stavano in un appartamentino, io e
altri in cantina, una parte dal portiere, lui sì, un vero eroe. La sera
del 7 aprile iniziava la Pasqua ebraica, decidemmo di onorarla tutti
insieme. Le SS ci trovarono così, tutti insieme».
Un caso
essere scoperti proprio quella sera?
«No, una spiata. Un ragazzotto quella mattina aveva seguito mia sorella e
l'aveva importunata. Mia sorella lo aveva trattato male. Quando la sera
ci portarono via, insieme ai fascisti lei riconobbe quel giovanotto. Ci
aveva denunciato, certamente anche per soldi. Un ebreo valeva 5 mila lire,
noi eravamo otto, un buon guadagno in un solo colpo. Fummo portati a
Regina Coeli e poi il viaggio separati fino a Auschwitz su un treno
bestiame. Ci rivedemmo fuori dal lager in una scena apocalittica, urla,
pianti, bastonate. Mia madre ci abbracciò e ci disse "Non vi vedrò
mai più". La sera era già morta. Un mio fratello morì di fame, un
altro dieci giorni prima che mi liberassero, il 27 gennaio del `45 nella
marcia della morte da un campo all'altro. Il mio ritorno fu avventuroso,
più di quello raccontato da Levi. I sovietici che mi avevano recuperato
in stato pietoso mi fecero curare nel Caucaso e poi mi arruolarono nel
loro esercito. Nel dicembre 1945 finalmente ero a Roma».
E
adesso?
«Adesso vivo perché la memoria non muoia. Più che celebrazioni
retoriche mi piace parlare con i giovani per trasmettere loro un po’
della nostra storia. Oramai di testimoni non ce ne sono più molti. La
scorsa settimana se ne sono andati Flaminia Anticoli e Leone Fiorentino.
Io vado avanti».
La vita degli ebrei oggi a Roma. Ci sono dei ritorni razziali
che non investono solo voi, penso all'extracomunitario picchiato. Lei che
cosa teme?
«Noi ebrei siamo sempre vittime di una qualche confusione, diventa
antisemitismo il solo essere contrari alla politica di Israele. Scambiano
loro con noi ed è inesatto. Io come ebreo non mi sento in pericolo, ci
sono altre minoranze molto più a rischio. Quando nasce l´odio verso il
diverso, è a rischio la democrazia, la libertà. Noi siamo protetti dallo
Stato, il Ghetto è presidiato. Certo è triste vederlo così ma è
necessario. Io credo che alla base ci sia una non conoscenza della storia
e dei fatti così come sono realmente accaduti. Quando vado nelle scuole,
anche le più difficili e parlo pure agli studenti con le teste rasate
della mia vita, dopo un´iniziale diffidenza vedo l´interesse. Il
pericolo non arriva dai giovani che vanno educati, il pericolo vero è
esterno, come a Bali. Poi c'è sempre il gruppo di irriducibili, come
quel ragazzo che ci denunciò per cinquemila lire. Ma si parla di
minoranze. Anzi, oggi trovo ci sia più attenzione agli altri, un tempo
regnava l´indifferenza».
E il ghetto che cosa rappresenta per
lei?
«Il ghetto è casa. Incontro gli amici, non ho problemi, mi sento amato.
Lì ci si ritrova anche se oramai il ghetto è abitato molto poco dagli
ebrei che ne uscirono quando abitare fuori significava molto. Consideriamo
che è un quartiere buio, malsano, umido. Ora è di gran moda, i prezzi
delle case sono arrivati alle stelle e molti vorrebbero tornare. Anche
perché sono lì dentro le nostre radici, da lì parte la nostra memoria,
quei mattoni parlano la nostra lingua e la nostra commozione lì acquista
significato».
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Michela Tamburrino
[Tratto da La Stampa
16.10.02]
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