Nel 1947, all'indomani della Il Guerra mondiale e della Shoà, nella casa romana di un anziano, noto e saggio accademico, io, giovanissimo studente, ponevo la domanda "che cosa fosse" l'antisemitismo. Da parte mia, intendevo sostenere la tesi che esso fosse un diversivo, cioè uno strumento per orientare, per incanalare il malcontento delle masse verso un falso obiettivo. Il vecchio professore rispondeva invece che si trattava semplicemente di "una forma di xenofobia". A parte il vezzo di spiegare (o credere di spiegare) un fenomeno con la magia di un nome greco, era implicita nella risposta del mio interlocutore la omologazione dell'antisemitismo con la più generale avversione verso qualsiasi straniero. Secondo un modo di pensare abbastanza comune, riscontrabile anche nel pensiero liberale, ne derivava l'indicazione del rimedio, la ricetta per estirpare a tempi brevi la malattia, visto che estirpare l'odio avrebbe richiesto, per bene che andasse, tempi molto lunghi: far sì che "lo straniero" non ci fosse più: assimilandolo o collocandolo altrove. Nel caso degli ebrei, ciò poteva comportare dar loro uno Stato proprio, facendoli diventare un popolo come gli altri popoli e non più un popolo diverso, di stranieri per definizione. Alla fine di quel preciso anno l'ONU avrebbe appunto deciso, con una eccezionale convergenza fra Stati Uniti e Unione Sovietica, la istituzione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo nella ex Palestina mandataria britannica. Sfortunatamente, però, fino dal primo momento, l'atteggiamento degli Stati confinanti nel Medio Oriente riproduceva nei confronti dello Stato ebraico esattamente la formula della estraneità. Analogamente al modo in cui, prima del 1947, l'antisemitismo in Europa considerava gli ebrei senza Stato come estranei e intrusi, così, fra gli Stati del Medio Oriente, era visto altrettanto estraneo e intruso lo Stato degli ebrei. Si riproduceva così in veste di antisionismo l'antico movente dell'antisemitismo. Era come se un giorno si fosse detto agli ebrei: andate via da queste terre, andatevene in Palestina; e, l'indomani: ma perché siete andati in Palestina, a creare nuovi problemi alla società dei popoli normali? Che cos'è, dunque, l'antisemitismo? Più correttamente, abbandonando un termine erroneamente pretenzioso sul piano scientifico, nato a fine ottocento dalla penna di un giornalista tedesco, che cos'è e dunque che cosa causa l'antiebraismo, l'odio per gli ebrei, sin'at Israel in ebraico, judenhaß in tedesco? Prendendo a prestito un concetto chimico, credo che potremmo dire che non si tratta di un fenomeno elementare ma chiaramente di un fenomeno composto. Non è dunque una forma di xenofobia, malgrado contenga certamente non pochi elementi di xenofobia. Si tratta di avversione teologica, ma non è soltanto un problema di teologia. Senza dubbio è una manifestazione di razzismo, ma non è soltanto razzismo. Si tratta anche della conseguenza della violenza sciovinistica che vede l'insidia del cosmopolitismo e della pluriappartenenza culturale o etnica ovunque. Ma anche in questo caso non è soltanto questo. Tutti questi elementi confluiscono in un intreccio molto difficile da dipanare. Se si riesce a battere il razzismo, a farlo rifiutare come dottrina e come prassi, ecco che emerge il problema teologico. Se quest'ultimo viene superato, ci pensa lo sciovinismo a mantenere l'avversione per gli ebrei. È proprio la complessità di questo fenomeno che pare gli garantisca la possibilità di rinascere periodicamente dalle proprie ceneri, rivestendosi di abiti nuovi mantenendo sempre invariato il nemico da esecrare e da perseguitare che rimane l'ebreo, l'eterno ebreo, der ewige jude. Non sempre l'ebreo è quello che esiste materialmente. Più precisamente, quello che frequentemente conta è la rappresentazione dell'ebreo che prevale sulla sua realtà materiale e storica. Ad esempio, quantitativamente il numero degli ebrei è quasi sempre sovrastimato. Perché? Verosimilmente perché, per farne un nemico "serve" rappresentarlo a questo modo. Pochi ebrei non sono abbastanza potenti, non sono abbastanza pericolosi, non rappresentano una minaccia. Molti ebrei invece sì. Dal punto di vista qualitativo tutti gli ebrei "devono" essere interessati al denaro, anche se, all'occasione, essi sono utili anche come miserabili, straccioni e malaticci che sollevano disgusto e rifiuto. Ma perché il denaro? Perché esso appare da sempre e oggi più che mai come un potere occulto, che non può essere afferrato materialmente, che è senza confini, che è al tempo stesso corrotto e corruttore. Lo stesso Giuda è colui che tradisce per denaro. Ed ecco un'altra rappresentazione: gli ebrei vengono chiamati "giudei" che è un termine che richiama emotivamente e simbolicamente non certo la tribù che prende il nome da uno dei dodici figli di Giacobbe, alla quale apparteneva lo stesso Gesù, quanto piuttosto il bacio del traditore. Ma è la stessa religione ebraica a non essere conosciuta nelle sue complesse articolazioni e nella sua evoluzione storica, quanto piuttosto nella sua rappresentazione convenzionale di una religione arida e formalista, che ignora il concetto dell'amore. Anzi, lo stesso "Dio degli ebrei" viene rappresentato - e con esso l'intero cosiddetto " Antico" Testamento - come il Dio crudele e assetato di vendetta, naturalmente in contrapposizione al "Dio cristiano", il Dio del Nuovo Testamento. Uno studio serio della tradizione ebraica, e stavo per dire più propriamente farisaica, ci dovrebbe portare a tutt'altre conclusioni, che demolirebbero totalmente queste icone; ma esiste già una ricca letteratura a disposizione. Si pone però anche in questo caso il quesito: se la rappresentazione negativa della stessa religione ebraica è a tal punto più importante dello studio e dell'apprendimento (non dell'adozione) dei contenuti oggettivi della religione ebraica stessa, non è forse ipotizzabile che tutto questo abbia origine e risponda a un bisogno profondo della società nel suo insieme? In altre parole, parrebbero avere ragione coloro che quasi paradossalmente affermano che l'antisemitismo o più correttamente l'anti-ebraismo siano, più che un problema degli ebrei, un problema della società non-ebraica. Se questo è vero, dobbiamo cercare le radici del fenomeno non più nella minoranza ebraica, neppure nella relazione fra maggioranza non-ebraica e minoranza ebraica ma all'interno di quella che si chiama la società dei gentili. Quali possono essere, dunque, queste radici? Una prima ipotesi è prevalentemente dottrinaria. È possibile che nella società sia tuttora presente e più forte di quanto si possa sospettare una antica vena di paganesimo, che male recepisce il messaggio monoteistico, non ancora perfettamente metabolizzato. Pare paradossale, ma la Chiesa potrebbe apparire ancora ad alcuni "troppo ebraica". Del resto, una certa diffusa cultura della corporeità, che può essere bellezza ma anche esaltazione della forza che prevale sulla debolezza fisica, il culto dell'eroe, il culto del campione, parrebbero confermare questa ipotesi. Non si tratta di auspicare una società di asceti che rifiutano di godere di quanto la vita può offrire; questo non è mai stato predicato neppure dalla tradizione ebraica. Certo, si tratta di rifiutare una società nella quale, per accedere a quanto di meglio la vita può offrire bisogna essere i più forti, perché è la forza che ce ne dà il diritto. E la maggioranza è sempre la più forte. Una seconda ipotesi è quella che direi sociologica. Quello che noi chiamiamo lo "sviluppo moderno" della nostra società; quella nella quale viviamo, godiamo e soffriamo, è in realtà un suo sviluppo fortemente accelerato che, partendo da una non troppo remota società agricolo-pastorale, attraverso una società artigianale-mercantile è giunta a una società industriale e infine a una società nella quale ha funzione-guida il capitale finanziario, del quale comprendiamo con sempre maggiore difficoltà le regole, nella quale non sappiamo bene prevedere e controllare i momenti di crisi. Vi sono due tipi di reazioni a questo sviluppo tumultuoso e incerto. Una è un po' romantica e consiste nella idealizzazione non tanto del passato ma, ancora una volta, di come ci rappresentiamo, anche in forma consolatoria, il passato stesso. La seconda consiste invece nella caccia alle streghe. Detta in poche parole, si tratta di convincersi che in realtà lo sviluppo sociale, economico, culturale, andrebbe per il meglio; si tratta di aderire alla visione del dottor Pangloss di voltairiana memoria. Ma ...ci sarebbe un complotto occulto che rovina e distrugge tutto, un tarlo che si annida nelle pieghe della società e che si nutre della sua distruzione. Certo, le streghe sono tante, i tarli si distinguono in categorie, in famiglie, in specie, diciamo pure in razze. Il resto è storia, e anche storia abbastanza recente. Che fare, dunque? lo non possiedo ricette universali, ma credo di poter suggerire alcune riflessioni valide che dovrebbero indicare alcuni percorsi. Prima di tutto, una certa consapevolezza. Purtroppo noi non stiamo celebrando orrori e lutti che ormai appartengono al passato; dobbiamo celebrarli, certamente, ma sapendo che viviamo in un tempo di crisi e che già questo significa rischio. Il terrorismo è di per se un rischio ed anche quello che sta a monte del terrorismo stesso. La fame, le malattie, i rischi ecologici ci minacciano seriamente, ma nella vita comune ci comportiamo come se non ne fossimo consapevoli. La nostra società presenta sintomi di disintegrazione, la vita associativa langue, l'isolamento nelle nostra grandi città cambia la nostra cultura, i nostri costumi, gli stessi rapporti fra gli uomini e le donne. Questo non è fatale, non è inevitabile. Una strada da percorrere è quella di riprendere l'abitudine di parlare e di conoscersi attraverso la parola, per cercare amicizie nuove e collaborazioni. Poi, esattamente come la diversità biologica, così anche le diversità culturali sono una ricchezza, un tesoro da custodire e da arricchire. Essere diverso non significa essere un nemico, battere a una porta - ricordate Renzo dei Promessi Sposi? - non significa essere un untore; l'ebreo che attinge acqua da un pozzo è un assetato e non uno che intende avvelenare il pozzo e sterminare i cristiani. Basta con l'incitamento a dividere, a creare il nemico. Infine, conosciamoci per quello che siamo, non per quello che ci immaginiamo essere. Studiamoci, senza pregiudizi, senza farci dominare dagli incubi, e soprattutto senza presunzione di superiorità. Nella mia famiglia - e scusate se termino con una nota autobiografica - mi è stato sempre insegnato che avevo dei doveri. Dai quali deriva un rispetto del prossimo e pertanto un diritto, quello che anche il prossimo usi lo stesso rispetto nei miei confronti. Non è troppo ma neanche troppo poco. Assumiamoci questo impegno, oggi, 16 ottobre, ricordando con commosso ricordo coloro la cui vita, il cui dolore, i cui affetti sono stati calpestati senza rispetto e senza pietà. Non avremo inaugurato una nuova era. Ma cerchiamo di chiudere quella vecchia. | home | | inizio pagina | |